Nella città senza nome ha smesso da molto tempo di nevicare, l’inverno è solo un ricordo scritto nei libri e gli alberi si sono ammalati, incattiviti: minacciano di distruggere ogni forma di vita. Ma nessuno sembra accorgersene. Solo un gruppo di creature marginali si unirà per combattere la minaccia: Talia, una ragazzina senza genitori, il folletto Tundra con il suo gatto Peive, Bess, l’ultima Antica che ricorda tutte le sue vite precedenti, e Ramosecco, uno spirito vegetale che odia gli uomini. Sarà il loro viaggio a tessere un’alleanza tra specie e mondi, tra vivi e morti, per riportare l’incanto nella realtà e salvare tutto il vivente.
“Tundra e Peive”, il nuovo romanzo della scrittrice e poetessa pistoiese Francesca Matteoni, è un libro strano, coraggioso, ibrido come le creature di cui racconta e non a caso la prima opera narrativa pubblicata nella collana Terra di Nottetempo, che è dedicata alla saggistica a tema ambientale.
Un atto di amore per svegliarci l’indifferenza
Ma l’ambientalismo di Matteoni non è un didascalico e ingenuo amore per la natura, perché anche la natura sa essere crudele e può ferire. In questa lunga fiaba l’ecologismo è prima di tutto un atto di amore per tutto quello che cresce e vive su questa terra, un tornare a prendersi cura gli uni degli altri, per combattere l’indifferenza che ricorda il Nulla de “La storia infinita” e nel romanzo domina l’umanità, cieca di fronte ai cambiamenti climatici che la stanno distruggendo, proprio come lo siamo anche noi nella realtà.
“La mia è anche una critica a un certo ambientalismo – spiega Matteoni – le cose non si fanno per senso di colpa o perché vogliamo sopravvivere come specie o se pensiamo che il resto del vivente sia funzionale a noi, ma se creiamo rapporti d’amore e questo è possibile solamente attraverso l’immaginazione, proprio come in Fantàsia solo l’immaginazione di un bambino è capace di sconfiggere il Nulla. Volevo trasmettere il concetto che non solo la vita umana ha valore, anzi a volte le vite non umane possono avere un significato addirittura maggiore. Volevo scrivere un libro ispirato alle storie che hanno salvato la mia infanzia e dove dare spazio a chi non ha voce, quindi l’amore tra umano e animale, le creature piccole e marginali.”
E proprio l’amore tra Tundra e Peive, tra un folletto un tempo bambino e il suo animale, è il cuore pulsante del romanzo.
“Nel 2005 vivevo a Londra e in un parco ebbi la visione di questo folletto a cavallo di un gatto bianco con le macchioline arancioni, simbolo di luce che infatti ho chiamato Peive, come la divinità solare nella tradizione del popolo Sami, uguale al gatto che avrei avuto molti anni dopo, Ariel – racconta Matteoni – Tundra è il collegamento con tutte le creature di cui ho sempre letto nel folklore, dove i folletti sono o derivazioni di quelli che i Romani chiamavano Lari, gli spiriti dei morti che proteggono la casa, oppure in modo più tragico lo spirito di chi rimane intrappolato tra i mondi perché muore troppo giovane o addirittura non nasce. La tradizione degli spiriti folletti ha a che fare con il lutto e la perdita dei bambini e la ritroviamo in letteratura: Peter Pan è un bambino che non cresce mai.”
Dal folklore le storie per immaginare un finale diverso
Un’altra creatura del folklore che ritroviamo nel romanzo è la selkie, che nella mitologia celtica è una foca che togliendosi la pelliccia può diventare umana e nella leggenda si sposa con un uomo che vuole rubargliela, per tenere imprigionata e legata a sé per sempre. Anche in “Tundra e Peive” la selkie diventa il simbolo di tutto quello che non va nel rapporto tra maschile e femminile, una frattura che andrà sanata per ristabilire l’equilibrio.
“Sono affascinata dalle selkie perché è uno dei rari esempi in cui l’altro fatato è mite – dice Matteoni – le selkie non sono sirene che affogano gli essere umani o donne-drago orgogliose di sé, sono creature amichevoli e nascono perché negli occhi nella foca i pescatori e i cacciatori riconoscevano qualcosa di umano. Poi nelle fiabe sono diventate un’altra variante della sposa incantata e dell’uomo che la vuole controllare, ma c’è qualcosa di selvaggio che sfugge. Nel mio romanzo è la pura opposizione tra maschile e femminile dove l’idea del femminile è corale: le figure femminili sono quelle che rammendano il mondo e il maschile è un tentativo destinato a non farcela di scalare le vette. In questo romanzo le figure che ce la faranno sono quelle che si ibridano, tra i vivi e i morti, tra l’umano e l’animale, tra il vegetale e l’animale, oppure le donne che fanno la pace con la loro storia.”
Questa umanità che come noi ha messo da parte la capacità di vedere oltre se stessa, di scorgere una scintilla di magia nel ciliegio che torna a fiorire ogni anno, di credere alla possibilità che chi muore ci resti accanto in un’altra forma, non merita di essere salvata, sembra ammonirci “Tundra e Peive”, e sicuramente non si salverà da sola. Forse lo faranno le storie.
“Noi siamo tessitori di storie – conclude Matteoni – se le nostre storie sono povere, prevedibili, già dettate da regole molto strette anche ciò che viviamo sarà altamente prevedibile, cioè la fine dell’umanità a breve termine. Ma se le nostre storie diventano ricche così saranno le nostre possibilità, se aprono invece di chiudere, se riusciamo ad immaginare il finale aperto, allora forse c’è ancora speranza.”