Ci sono storie che non vorresti dover ascoltare e condividere. Ma ci sono anche madri e padri che quelle storie non avrebbero mai voluto doverle raccontare, perché per farlo bisogna aver vissuto un’esperienza che in molti, a ragione, ritengono innaturale: ovvero la perdita di un figlio malato di tumore. Sono vicende strazianti, che lacerano dentro e fuori. Se la morte dei genitori rende orfani, cosa accade quando a morire è un figlio? In questo caso il dolore è più grande delle parole. Infatti non ce n’è neanche una che possa inquadrare quello stato di cose che fanno di te un genitore sentimentalmente apolide. A volte, poi, capita d’imbattersi anche in persone straordinarie che in quel dolore hanno fatto germogliare semi d’amore e speranza.
È il caso della Fondazione Tommasino Bacciotti di Firenze, costituita dai genitori del piccolo Tommaso dopo la sua morte, avvenuta a poche ore di distanza dal compimento del suo secondo compleanno. Dire che negli ultimi vent’anni o poco più hanno offerto casa e accoglienza alle famiglie dei bambini malati di tumore e in cura al Meyer sarebbe riduttivo. “Sappiamo bene cosa significa avere un figlio malato di tumore, sappiamo cosa significa curarlo, sappiamo cosa significa perderlo” ci dice Paolo Bacciotti.
La Fondazione che porta il nome di Tommasino non offre gratuitamente solo un appartamento, ma anche l’opportunità di raccogliere e ricompattare la famiglia in un momento così difficile per il bambino bisognoso di cure. Oggi gli appartamenti sono in realtà 24 e solo lo scorso anno sono state ospitate 160 famiglie.
Paolo, oggi è la Giornata mondiale contro il cancro.
“Una giornata importante”.
Perché?
“Il cancro è una malattia frequente che può colpire chiunque, anche i bambini. È quindi importante sensibilizzare le persone e far capire che la vicinanza ai pazienti e alle loro famiglie è parte integrante del percorso di cura“.
Quanto è importante la presenza della famiglia?
“Fondamentale. Del resto questa malattia coinvolge tutti gli affetti. Il cambio della vita di ciascun componente è totale. Lottare contro il tumore è una cosa difficile, anzi difficilissima. E quindi è bene ricordare a tutti, soprattutto in giornate come oggi, che la persona colpita da una malattia così grave ha bisogno di tutto l’amore possibile”.
“Nonostante abbia pagato un prezzo altissimo, ho capito l’importanza di esistere”
Soprattutto quando il paziente è un bambino. Però sembra che non se ne parli mai abbastanza…
“Non c’è persona al mondo che sia preparata a ricevere una notizia del genere. Vorremmo che non accadesse mai a nessuno, ma purtroppo accade. Accompagni tuo figlio in ospedale per un mal di testa o una caduta e poi ti dicono che ha un tumore”.
Com’è possibile reagire?
“Dobbiamo accettare la malattia e dobbiamo prepararci a capire quali sono le conseguenze, anche sul piano psicologico. Il malessere, la perdita di capelli, l’ospedalizzazione… Sono cose dure da accettare, sia per i bambini sia per i genitori. A volte respingiamo le cose brutte, le vogliamo tenere lontane da noi. Forse è per questo che ne parliamo poco. Finché poi la cosa non capita a noi”.
Ognuno ha reazioni diverse. Voi avete avuto la forza, il coraggio e la perseveranza di aprire una Fondazione.
“Se non fosse stato per Tommaso e per questa storia purtroppo per noi finita male, be’, non avremmo costituito la Fondazione e non avremmo avviato questo percorso di accoglienza. Non avrei mai saputo che esistono associazioni che aiutano altre persone in difficoltà. Perdere un figlio non è paragonabile a niente. Nonostante abbia pagato un prezzo altissimo, ho capito l’importanza di esistere”.
La Fondazione è nata nel 2000. Quante cose sono cambiate da allora?
“Da quando è morto Tommaso la medicina ha fatto straordinari passi in avanti. Ma esiste comunque una forbice di tempo in cui non sai come stanno andando le cose, se sei guarito oppure no. Tutto questo incide sulla vita delle persone. Quando ci si ammala tutto cambia: vita, emozioni, relazioni. Vedi tutto con occhi diversi. C’è da lottare e da tirare avanti, anche se a volte è davvero difficile”.
Quali sono i vostri principali obiettivi?
“Vogliamo sensibilizzare, accogliere, essere vicini agli altri. Abbiamo vissuto questa tragedia in prima persona, sappiamo cosa significa. Quindi desideriamo essere vicini ai bambini costretti ad affrontare un percorso di cura lungo, difficile e devastante. Vicini a loro e alle famiglie”.
Si tratta anche di un aiuto concreto.
“Mettiamo a disposizione gratuitamente gli appartamenti affinché possano affrontare al meglio questo cammino, senza dover pensare alla logistica. Trovare un appartamento a volte può essere complicato, soprattutto in una città che non è la tua. Al Meyer arrivano pazienti da tutta Italia”.
Prima cosa accadeva?
“Fino a vent’anni fa le persone dormivano nei camper, nelle roulotte, dalle suore, nelle corsie d’ospedale. I bambini arrivavano con un genitore, che di solito era la madre. Restavano in ospedale per tre o quattro mesi, da soli”.
E ora?
“Oggi il bambino vive l’ospedale solo per il tempo necessario, per interventi o chemioterapie. Poi torna a casa per condurre la vita normale di tutti i giorni. Nel nome di Tommasimo abbiamo lavorato per mettere a disposizione una appartamento, che poi significa anche offrire accoglienza. È un’opportunità di guarigione in più che offriamo al bambino. Sono percorsi lunghi, a volte durano anni. In questo modo i bambini possono ricompattare la famiglia e vivere con i genitori, i fratelli, le sorelle, i nonni e gli animali domestici. Con una casa in cui stare ci sono meno traumi”.
Nel 2021 avete ospitato 160 famiglie. Il Covid ha rallentato i percorsi di cura?
“Purtroppo anche durante la pandemia le malattie tumorali ci sono. Anzi, abbiamo registrato un incremento importante. Del resto operazioni, terapie e cure non possono essere fermate o sospese. Sono stati due anni difficili, non potevamo muoverci come avremmo voluto. Ma questo non ha fermato l’arrivo delle famiglie”.
La Fondazione Tommasino Bacciotti è l’unica in Italia che mette a disposizione 24 appartamenti. Soddisfatti?
“Direi orgogliosi. Non chiediamo niente, non vogliamo mai niente. Ma la più grande gratificazione è accompagnare la famiglia nel percorso d’inserimento. All’arrivo piangono perché sono consapevoli di ciò che dovranno affrontare, ma sanno anche quello che noi abbiamo vissuto. In quella stretta di mano, che poi corrisponde alla consegna dell’appartamento, ci sono infiniti significati“.
E quando se ne vanno?
“Ci scrivono lettere in cui raccontano la loro storia e riversano tutte le loro emozioni. Quella è la più grande delle gratificazioni”.