L’appuntamento è a Pontremoli, alle dieci e mezzo di una mattina d’autunno. Percorrendo l’autostrada vediamo il cerchio perfetto dell’arcobaleno che fa da cornice a un camion che trasporta blocchi di marmo. Due elementi che da soli sono sufficienti a definire la terra che stiamo attraversando.
Perché l’autunno? E perché Pontremoli? Semplicemente perché l’autunno a Pontremoli regala sfumature di colore che nessuna fotografia riuscirà mai a restituire fedelmente. O almeno non con le stesse emozioni che solo il contatto col fogliame umido dei boschi è capace di comunicare. Poi questa è la stagione delle castagne. E in Lunigiana, si sa, è impossibile prescindere dalle castagne.
All’origine del viaggio
Se siamo qua è per partecipare a un “press tour”. È così che vengono chiamati i “viaggi stampa”, che per qualcuno è solo un modo di vedere cose belle e mangiare cose buone senza per questo dover contribuire alle spese. Eppure il senso della nostra presenza si spinge ben al di là di quel che potrebbe sembrare.
D’accordo, abbiamo visto davvero cose belle e mangiato davvero cose buone, anzi buonissime. Ma non è questo il punto. Nei due giorni trascorsi in Lunigiana abbiamo incontrato esperienze uniche, storie di vita che s’intrecciano alle storie dei paesi, dei borghi e delle città che abbiamo attraversato. Abbiamo conosciuto piccole comunità resilienti e persone che hanno trasformato la passione per la propria terra e per le tradizioni in una ragione di vita.
Pontremoli, andata e ritorno
Tutto ha inizio a Pontremoli, all’ora stabilita. Memorizziamo subito i nomi delle due guide, Eleonora e Mattia. Ma anche i loro numeri di telefono, perché siamo quasi certi che prima o poi ci saranno utili. Sono soci di Sigeric, che ha organizzato il press tour. Scopriamo che anche questa è una cooperativa di comunità, esattamente come quelle che di lì a breve andremo a conoscere e incontrare.
Tutte sono unite dall’amore per la loro terra, ma ogni cooperativa ha le sue specificità. O, per dirla meglio, la sua attitudine, che spesso corrisponde anche alla propria missione: mentre Sigeric si occupa di servizi per il turismo (meglio se sostenibile e responsabile), Valli di Ziri concentra tutte le sue energie nell’allevamento dell’agnello zerasco che rischiava di estinguersi e che ora è presidio Slow Food.
Iniziamo quindi con una narrazione degna del miglior Bignami su Pontremoli: la Torre del Campanone del 1322, le torrette delle fortificazioni trasformate in abitazioni private, l’origine del nome (“pons tremulus”, cioè ponte tremolante) e infine, appunto, i ponti, che qua non mancano. Ce n’è uno anche sullo stemma della città, anche se oggi i ponti hanno smesso di tremare perché non non sono più fatti di legno. “Però c’è sempre vento” ci confessa Mattia su uno dei due ponti gemelli, tra i fiumi Verde e Magra.
La curiosa storia del wafer quadrato
Prima di partire verso Zeri, dove incontreremo una cooperativa di comunità tutta al femminile, scopriamo che a Pontremoli c’è il Caffè degli Svizzeri, e non è un caso. In queste valli c’è una lunga storia di migrazioni d’andata e di ritorno. Mentre la gente se ne andava in Francia, qua nell’Ottocento arrivavano gli svizzeri (appunto). Erano per lo più pasticceri e quel Caffè in centro è ancora gestito dagli eredi.
Ed è qua che la storia si fa interessante. Sono proprio gli svizzeri a inventare la ricetta del dolce tipico, che si chiama Amor ed è composto da una speciale crema (buonissima) raccolta “a panino” tra due cialda quadrate di wafer. Cialde di quella misura sono progressivamente scomparse dal mercato. Del resto, fatta eccezione per Pontremoli, non c’era una grande richiesta di quel formato di wafer. Quando anche l’ultima cialda prodotta dalla Loacker stava per essere ritirata perché non garantiva profitti, una delegazione di pasticcieri pontremolesi ha chiesto di essere ascoltata dall’azienda altoatesina. La storia ha colpito al cuore i responsabili della casa dolciaria, che a discapito dei profitti ha infine deciso di mantenere la cialda in produzione. Stavolta, è proprio il caso di dirlo, ha vinto l’Amor.
È bello perdersi (se poi si ritrova la via)
A Pontremoli torneremo per visitare Villa Dosi Delfini, straordinario esempio di barocco pontremolese di cui ignoravamo perfino l’esistenza. Non si tratta di un museo, bensì di una villa vera e propria, abitata e abitabile, che grazie a Sigeric può essere visitata con percorsi guidati. Qui, oltre ai tritoni, ci hanno colpito la collezione di libri antichi (tantissime le cinquecentine), il quadro di Luca Giordano (La morte di Seneca) e il terrazzo interno che si affaccia sul salone. Tutt’altra narrazione meriterebbero le storie della linea ferroviaria, poco distante, e degli antichi cedri che dominano il giardino e che crescono in larghezza dopo essere stati accidentalmente cimati dall’aviazione americana quando la villa era occupata dai tedeschi, che nella seconda guerra mondiale la utilizzarono come deposito di armi.
A causa dei ritardi accumulati non riusciremo mai a visitare il Museo delle statue stele lunigianesi, proprio com’è accaduto ai protagonisti del romanzo di Chi manda le onde di Fabio Genovesi. Segni del destino. (Anche se, ve lo anticipiamo, sulle statue stele abbiamo un aneddoto da condividere. Lo faremo più avanti). Quindi partiamo per Ziri, e com’era prevedibile immaginare ci perdiamo nonostante l’ausilio della tecnologia che ci dice di svoltare a destra, proseguire dritto e così via. Sapevamo che i nomi (e i numeri) delle guide ci sarebbero stati utili. Ma perdersi fa parte dell’esperienza. E alla fine, dopo esserci persi, è anche bello poter ritrovare la via. Sembra quasi una metafora della vita.
Come far sopravvivere la tradizione
E qui, in questa valle boscosa dove piccole comunità sono sparse un po’ ovunque come chicchi di sale gettati su un piatto, veniamo a contatto con la cooperativa Valli di Ziri, che collabora a stretto contatto col Consorzio per la valorizzazione e tutela della pecora e dell’agnello di razza zerastra. Sono tutte donne, ognuna con la sua storia. C’è chi alleva, chi produce il formaggio, chi cucina, chi fa tutte le cose insieme. Scopriamo anche la bontà dell’agnello e delle torte d’erbi (anche se poi dentro ci si possono mettere ben altri ingredienti, come patate e porri). Tutto è cucinato nei tradizionali testi di ghisa con l’unico ausilio della fiamma del legno e del calore della brace.
Questa stessa tecnica è stata utilizzata anche a Guinadi, una trentina di chilometri più in là, dove abbiamo potuto degustare i testaroli al pesto, che qualcuno a volte confonde con i panigacci (ma non ditelo a voce alta, perché questo è un errore da segno rosso). Anch’essi sono presidio Slow Food e vengono ugualmente cucinati nei testi. Alla cooperativa di comunità La Guinadese – che esiste dal 1919 e che rappresenta la più antica attività commerciale di tutta la provincia di Massa Carrara – si va perfino oltre: anziché la teglie e la carta da forno, come isolante qua si continuano a utilizzare le foglie di castagno, proprio come vuole la tradizione. Questa straordinaria comunità, che oltre a gestire l’unico bar di paese offre anche vari servizi (compresi quelli sanitari), è talmente radicata sul territorio che non esiste famiglia che non abbia almeno un socio all’interno della cooperativa.
Sono le persone che fanno i luoghi
In sole 48 ore abbiamo compiuto spostamenti (in auto) per qualche centinaio di chilometri, camminato moltissimo e perfino pedalato (fortunatamente con l’e-bike messa a disposizione da Sigeric). Abbiamo incontrato una decina di cooperative di comunità (la Lunigiana sembra essere il territorio toscano con la maggiore concentrazione), visitato i laboratori dell’ottima China Clementi a Fivizzano, esplorato le Grotte di Equi, visto da vicino l’allevamento di pecore zerasche e come si cucina nei testi. Abbiamo mangiato i piatti tipici cucinati dalle cooperative di comunità, ma anche dall’antico ristorante La Lina (a Bagnone) e nella nuovissima osteria Raccontadina di Fivizzano (assolutamente da provare), che appartiene alle rete della cooperativa La Medicea.
Siamo andati a conoscere questa terra toscana “di confine” – così è considerata per stessa ammissione dei suoi abitanti – insieme a persone speciali. Abbiamo avuto compagni di viaggio un po’ folli, un po’ creativi, un po’ social, un po’ studiosi, un po’ content creator. Tutti interessanti, ognuno in modo diverso. Da Cartoni Morti (al secolo Andrea Lorenzon) con la sua banda al seguito, a Guido Grosso (alias MisterGrosso), fino alla coppia di travel blogger Elisa e Luca (miprendoemiportovia). E speciali sono le tante persone che abbiamo incontrato. Perché non è possibile conoscere i luoghi senza conoscere chi i luoghi li vive e li abita. È questo il senso del viaggio, qualunque sia la destinazione.
Le statue stele (e un incontro da non dimenticare)
Proprio come quello che abbiamo fatto in Lunigiana, la cui storia antichissima è anche ricordata dalle millenarie statue stele incise dai Liguri Apuani. Nonostante il tempo non ci abbia permesso di visitare il museo (ma questo lo sapete già), due statue stele le abbiamo incontrate comunque. Dove? Nella straordinaria Pieve romanica di Sorano, piena zeppa di elementi medievali. È straordinario pensare che proprio qua, dove ha avuto inizio il nostro piccolo tour in e-bike, sono state ritrovate sette statue stele, due delle quali sono ancora conservate lì dentro. Ed è ancora più straordinario pensare al fatto che in epoche passate erano state utilizzate come architravi. Forse è proprio grazie alla loro inadeguata funzione che Sorano I e Sorano V ancora oggi fanno bella mostra di sé.
Alle stele antropomorfe, che rappresentano per lo più entità capaci di proteggere le comunità, è strettamente collegata anche l’ultima narrazione di questo viaggio. Perché la pedalata che da Sorano ci ha portati fino a Bagnone è stata inframezzata da tappe esperenziali. È durante una di questa, nel borgo di Filetto, che ci siamo imbattuti nel laboratorio (chiuso) del designer orafo Andrea Cirelli.
Siamo rimasti colpiti da quelle piccole creazioni in argento che riproducono le statue stele lunigianesi, ognuna delle quali ha impresso sul retro il luogo del ritrovamento, che poi dà loro anche il nome. Ebbene (si fa per dire) scopriamo che l’orafo è scomparso solo poco tempo fa e che nel piccolo bazar di via Ariberti sono in vendite gli ultimi ciondoli raffiguranti le statue. Ne compriamo due, ascoltando il racconto della storia dell’orafo che ha girato il mondo e a cui tutti, qui, volevano un gran bene. Con quelle parole che rimbalzavano nella testa e nel cuore siamo risaliti in sella. La pedalata non era ancora finita.