Marco Bellafiore, Luca Benedetto, Gabriele Luttino e Christian Russano hanno fondato i Satoyama nel 2013, con una formazione classica (hanno frequentato il Conservatorio) ma con uno spirito curioso rivolto a tutta la musica: dal jazz sperimentale alla musica rock ed elettronica di band come Radiohead o Tinariwen.
Il loro nome Sato-Yama viene dall’unione di due parole giapponesi che significano villaggio e montagna, una zona di confine in cui l’uomo incontra la natura più selvaggia, un po’ come la loro musica che si colloca nel punto di incontro tra generi diversi.
Sinking Island è il titolo del loro quarto album che, come i precedenti, affronta il tema della salvaguardia dell’ambiente dedicando ogni singola canzone a un’isola o a un luogo che nei prossimi anni saranno sommersi a causa dell’innalzamento del livello dei mari.
La loro musica è capace di evocare veri e propri paesaggi sonori. Se chiudete gli occhi e ascoltate attentamente i loro dischi potrete avvertire tra le note il gocciolare dei ghiacciai che si sciolgono, il frusciare delle chiome degli alberi e i canti delle balene in amore.
I Satoyama ci trascineranno nel loro mondo incantato sabato 13 maggio al PARC di Firenze all’interno della rassegna Mixité di Toscana Produzione Musica.
La nostra intervista a Marco Bellafiore
Ciao Marco questo disco mi sembra più cupo del precedente “Magic Forest”, si sente soprattutto nella prima parte un senso di pericolo imminente. Il pianeta ha i minuti contati, e ci sono problemi che non possiamo più rimandare. Per voi la musica è sempre stato un gesto soprattutto politico, è così?
Assolutamente sì, è un discorso complesso, perchè se è vero che noi lavoriamo molto dal punto di vista della ricerca musicale forse non è facile immaginare come ci possa essere un concetto politico dietro. In realtà c’è, magari non è direttamente la nostra principale ispirazione creativa ma fa parte del processo. A noi piace definire quello che facciamo come musica immaginifica, vogliamo creare paesaggi, raccontare delle storie, evocare determinate sensazioni e scenari. Attraverso questo tipo di poetica vogliamo trasmettere il tema ambientale.È un po’ il concetto di musica da film a cui ci sentiamo molto legati.
A noi piace definire quello che facciamo come musica immaginifica, vogliamo creare paesaggi, raccontare delle storie, evocare determinate sensazioni e scenari
La vostra musica è sempre stata al confine tra generi diversi, la classica, il jazz, l’elettronica. In questo ultimo disco sento moltissimo i Radiohead di Ok Computer ma anche una band famosa più o meno 20 anni fa che mi era molto cara, non so se ve li ricordate, la Cinematic Orchestra, anche loro, proprio come voi, avevano il potere di evocare immagini, creare colonne sonore di film che ancora non esistono…
Si la Cinematic Orchestra la conosciamo tutti e quattro. Non siamo fan sfegatati, però conosciamo il loro approccio e modo di fare musica e in un certo senso siamo un po’ della stessa pasta. È sempre difficile definire il nostro genere musicale perchè siamo noi per primi a non sapere cosa facciamo (ride). Dal punto di vista tecnico le influenze sono tante, siamo insieme da tanto tempo e abbiamo sempre avuto ascolti diversi e approcci diversi alla scrittura e alla musica in generale. Abbiamo sempre cercato di essere estremamente e forse eccessivamente democratici nella realizzazione della nostra musica. Da Magic Forest in poi questo è stato il nostro modo di lavorare. Per il primo e il secondo disco erano più orientati verso il jazz in termini larghi con dei solisti. Dopo queste prime esperienze abbiamo iniziato a lavorare molto di più in termini di suono di gruppo. In Sinking Island è tutto scritto, le parti solistiche sono pochissime, se c’è una parte improvvisata è collocata in un certo punto ad hoc. Abbiamo cercato di maturare una composizione di gruppo, lavoriamo insieme, portando le nostre idee e lavorandoci tutti sia in fase di scrittura che alle prove finchè non si raggiunge un risultato che piace a tutti. È estremamente faticoso, perchè richiede tempi molto lunghi, ma il risultato finale piace a tutti e non sappiamo bene cosa sia, un qualcosa che si trova al confine.
Nel 2020 siete partiti per un tour che doveva portarvi in Russia e poi in Cina ma che a causa del Covid si è trasformato in una sorta di incubo che è confluito nel documentario “Rails” di Fabio Dipinto, cos’è successo? Ce lo vuoi raccontare?
Abbiamo un’amica Lavia Lin che è un’artista cinese che vive a Berlino con la quale abbiamo fatto dei live painting, suo padre gestisce un jazz club a Shangai, l’idea del viaggio è nata per andare a suonare lì. Volevamo andarci in maniera sostenibile, per conciliare il nostro lavoro con un certo tipo di rapporto con l’ambiente. Quindi ci siamo detti: come ci andiamo in Cina? Ci andiamo in treno, così impattiamo nel modo minore possibile. Abbiamo deciso di partire da Mosca con la Transiberiana per arrivare a Shangai costruendo un tour musicale a impatto zero, grazie anche all’associazione italiana zeroCo2 che calcola le tue emissioni nell’atmosfera e poi compensa con azioni dirette. Abbiamo trovato un bando grazie a Fano Jazz Network, il bando “Per chi crea” della Siae, lo abbiamo vinto e siamo partiti il 3 marzo 2020, il giorno prima che in Italia chiudesse tutto. I visti per la Cina non sono mai stati rilasciati a causa del Covid, quindi il tour è terminato a Vladivostok. In 18 giorni abbiamo visto tutta la Russia in treno, molto bello. Ma mano a mano che andavamo avanti il Covid si è intromesso sempre di più nel nostro viaggio ed è diventato quasi il tema principale del racconto. Una situazione un po’ surreale. Il film racconta la sensazioni che noi abbiamo vissuto durante il viaggio anche e soprattutto in relazione con quello che stava accadendo intorno a noi e in particolare in Italia da cui ci arrivavano notizie terribili.
Negli ultimi giorni hanno fatto scalpore le azioni di Ultima generazione, i giovani attivisti che per riportare l’attenzione sul problema dell’ambiente gettano vernice sulle opere d’arte. Tu cosa ne pensi?
È un tema delicato, io penso che sicuramente sono gesti importanti per i quali ci vuole coraggio, ho tanto rispetto per questi ragazzi sia per quelli che fanno un atto di vandalismo che per quelli che bloccano il traffico e si beccano gli insulti alle otto e mezzo di mattina. La loro motivazione è valida, la necessità che la gente venga a conoscenza delle loro motivazioni è sempre più urgente. Uno può chiedersi che senso abbia protestare così però per influenzare le persone che hanno il potere decisionale è giusto che si sensibilizzi il più possibile la gente comune che non si preoccupa di queste cose. La vernice sulle opere d’arte è un gesto forte, ma io mi sento di dire che sono gesti coraggiosi e da un certo punto di vista necessari. Stimo chi ha il coraggio di fare queste cose sapendo a cosa va incontro. Noi abbiamo collaborato con Sea Shepherd organizzazione che si occupa della difesa dei mari, abbiamo organizzato un incontro con loro a Fano l’anno scorso. Inoltre parte dei proventi del nostro cachet dei concerti nell’ultimo anno è stata donata proprio a questa organizzazione.