Il Vesuvio sullo sfondo sembra osservare gli umani, stretto ai lati dalle quinte della scena del Verdi. Sul palco di Firenze invece si celebra tumultuosa la vita che non è mai immobile, né nelle sue umane piccolezze e neppure nei momenti di straordinaria elevazione, in quel preciso istante in cui le persone accarezzano le arti, il pensiero, la filosofia.
Il teatro è il luogo del sentire comune
Il teatro è il luogo di quel sentire comune, il posto dove la gente si incontra per diventare migliore, almeno giusto il tempo dello spettacolo.
I cellulari sono fortunatamente spenti, la sala è straordinariamente buia, illuminata solo dalla scena centrale, da un Salemme ancora una volta istrionico. Porta a teatro la maestria e la genialità del pensatore, l’energia di una mente che macina e l’occhio di chi alza lo sguardo da terra e osserva la realtà oltre il velo dell’apparenza.
Gli stereopiti sono il luogo comune contro cui Salemme alza il dito
Ed è così che gli stereotipi sono il luogo comune contro cui l’artista alza il dito, senza giudicare ma provando a spingere oltre la riflessione. “Napoletano famme ‘na pizza” sintetizza quello stereotipo globale così diffuso in Italia e pure oltre, certezza che naviga gli oceani, le vette delle montagne, i letti dei fiumi, le case della gente.
Il napoletano non deve forse bere il caffè nella tazzina bollente? Non deve saper fare la pizza e tifare Napoli? Deve saper cantare, recitare, dare spettacolo.
Ed è qui che la banalità di circoscrivere un popolo si prende una pausa. È Salemme che frena il generico e ingrana la marcia in una commedia nella quale pensiero e sentimento oltrepassano le curve morbide di Posillipo, toccano le viscere della terra della Napoli sotterrata, alzano lo sguardo da Capodimonte.
L’omologazione è un atto contro l’umanità
Quanta Napoli si scopre in quel viaggio sul palco del Verdi, quanta gente da incontrare anche oltre Napoli, tanta è in teatro, a Firenze. C’è chi viene dalla Sanità e chi da Bacoli, lì è nato Salemme. Lì ha scoperto che la vita è fatta di passione, quella che deve muove le persone, lì ha capito che l’omologazione è un atto contro l’umanità e che la bellezza straordinaria della diversità è il più grande regalo che potesse farci la vita.
Ci dividono in categorie, ammonisce poi. Gli uomini, le donne e via discorrendo quando dovremmo solo parlare di “persone”.Pone delle domande al suo pubblico nelle pause in cui le famiglie di “Una festa esagerata” e di “Con tutto il cuore” (gli spettacoli che in questa nuova rappresentazione diventano un tutt’uno), rientrano ognuna in casa propria e lasciano Salemme solo sul palco.
Si rivolge direttamente alla sua gente, quella che ha scelto di venire ad ascoltarlo, vederlo e incontrarlo a Firenze. Stavolta non c’è il personaggio sul palco, c’è solo lui, Vincenzo.
Quando incontriamo qualcuno smettiamola di chiedergli “da dove vieni” e domandiamogli piuttosto “dove vuoi andare”
Quel Vincenzo di Bacoli che prova ad allargare e dilatare il pensiero sulle frasi comuni. Smettiamola di chiedere quando incontriamo qualcuno “da dove vieni” e domandiamogli piuttosto “dove vuoi andare”. Eccola dunque la prospettiva che diventa strada da percorrere, ecco come si oltrepassa il banale, l’ovvio, il terreno senza ostacoli.
Ed ecco che Napoli non è solo pizza, non è solo calcio e Maradona, non è caffè bollente. “Napoli è Francia, Spagna, Grecia”, dice l’artista. “Una cacofonia armoniosa di suoni e voci di paura”.
Napoli non è un’icona prestabilita, città imprevedibile che non si può incanalare. Vive libera nella sua imperfezione e nei suoi mille volti, in un bianco e nero che non conosce equilibrio.
Napoli, una cacofonia armoniosa di suoni
Quella “cacofonia armoniosa di suoni” risiede nella sua storia, in quella lingua che è il napoletano, nella meravigliosa diversità della sua gente. Risiede nell’architettura dei suoi palazzi, nei bassi, nella città dei vivi e in quella dei morti. Risiede nell’arte che a Napoli si fa per strada, in teatro, nelle botteghe. Vive in quel rumore perpetuo che non accenna a fermarsi neppure di notte. Il caos che diventa silenzio solo quando si scende nelle viscere della terra, in una stratificazione di tempo e di anime.
Si chiama somma delle identità e quella non la puoi barattare con gli stereotipi e neppure con il più grande dei luoghi comuni. Salemme la incarna pienamente quell’identità e la racconta, teatro per teatro, sera dopo sera. Risveglia il pensiero, avvolge con quell’arte che è cibo per la vita.
Il teatro ne abbraccia l’espressione, diffonde il suono della parola, amplifica il linguaggio del corpo. Diventa energia che abbatte gli schemi precostituiti e che si eleva, si propaga tra la gente anche quando cala il sipario. Vive, si perpetua, si amplifica.
Ci ricorda il teatro come gli esseri umani abbiano il grande dono di generare bellezza immateriale
Ci ricorda – il teatro – come gli umani abbiano un grande dono, quello di generare quella bellezza immateriale che il tempo non scalfisce, quel fluido potente trasmesso dagli attori. Lo ritrovi in quel battito di mani che non accenna a fermarsi, in quel ritorno silenzioso a casa. Nell’auto niente musica, è tempo di lasciare sedimentare quel pensiero che è partito dal Verdi e tocca le anime di ogni persona seduta sul velluto rosso. Spettatrice per un’ora e cinquanta ma protagonista arricchita del tempo che verrà.