Il Prozac rimodella e riorganizza le fibre nervose che rilasciano la serotonina nell’ippocampo e va ad agire sulla struttura fisica del cervello, incidendo sull’umore dei pazienti. È questo il risultato dello studio di un team di ricercatori italiani coordinato da Massimo Pasqualetti dell’Università di Pisa, che ha gettato a gettato nuova luce sul funzionamento della fluoxetina meglio conosciuta con il nome commerciale di Prozac.
Questo farmaco è stato introdotto nel mercato statunitense per il trattamento della depressione nel 1988 ma a più di trenta anni di distanza gli scienziati non sanno ancora esattamente spiegare il suo effetto positivo sul tono dell’umore dei pazienti. La ricerca, tutta italiana, è stata appena pubblicata su Acs Chemical Neuroscience.
Il Prozac è il primo farmaco nella classe di composti noti come inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina ad essere stato approvato dalla Food and Drug Administration degli Stati Uniti. Si tratta di farmaci, sottolinea Pasqualetti, “che bloccano il riassorbimento della serotonina prodotta dai nostri neuroni e ciò che abbiamo scoperto ora è che la fluoxetina modifica anche la densità e il numero delle fibre che rilasciano la serotonina nell’ippocampo, quindi la sua azione non è solo a livello funzionale, ma va ad agire anche su quello che possiamo definire l’hardware del cervello”.
I ricercatori hanno svolto lo studio su un modello murino marcando i neuroni che producono la serotonina del cervello con una proteina fluorescente verde (Gfp) e hanno quindi somministrato a un gruppo la fluoxetina nell’acqua per 28 giorni e confrontato i segnali del marcatore Gfp con il gruppo di controllo che non aveva ricevuto il farmaco. Il risultato è che nel gruppo che assumeva la fluoxetina le fibre nervose deputate a rilasciare la serotonina nell’ippocampo diventavano meno numerose e più piccole di diametro rispetto a quanto osservato nel gruppo di controllo.
“Le conseguenze di questo riarrangiamento strutturale del cervello devono ancora essere approfondite – conclude Pasqualetti – ma certo costituisce un ulteriore tassello per capire come gli antidepressivi esercitano il loro effetto terapeutico”.