Non tutte le storie dei cervelli in fuga si assomigliano, men che meno quella di Brigida Marovelli. Il suo nome è probabilmente di origine celtica e significa “forte, virtuosa”. Una caratteristica che, come vedremo, sembra proprio appartenerle. Lei, giovane donna originaria della Garfagnana, dopo gli studi ha lavorato a lungo all’estero.
“Sì, ero un cervello in fuga. Per anni ho lavorato su progetti europei di partecipazione e condivisione alimentare. Il principale di questi? Si chiama Sharecity“ ci racconta Brigida. “È proprio grazie a quel progetto che ho trascorso un pezzo della mia vita al Trinity College di Dublino”. Già, l’Irlanda. È proprio lì che ha origine il suo nome. A volte i destini s’intrecciano inspiegabilmente, e noi nemmeno ce n’accorgiamo.
Poi Brigida ha fatto ritorno in patria. “In quel momento mi sono chiesta cosa volessi davvero. Meglio il mondo accademico italiano o un’altra dimensione?”. Ovviamente, se siamo qua a raccontarla, la scelta è ricaduta “sull’altra dimensione”.
Per descriverla in poche parole, quest’altra dimensione la colloca in provincia di Massa Carrara, più precisamente nelle valli di Zeri, in Lunigiana. Siamo a circa 700 metri sopra il livello del mare, in mezzo a una fitta vegetazioni boschiva, in un luogo in cui gli abitanti – anche sommando tutti i paesi sparsi nelle valli – non raggiungono le mille anime.
Brigida, qual è il tuo ruolo?
“Sono la consulente scientifica di un progetto di partecipazione”.
Dicci di più.
“Con la cooperativa di comunità Valli di Ziri abbiamo ricevuto finanziamento dalla Regione Toscana per un progetto sulla filiera corta, con l’obiettivo di riattivare in modo partecipato ciò che si era interro tanti anni fa”.
Cos’è che si è interrotto?
“Il processo. Mi spiego meglio. Col Consorzio di valorizzazione e tutela della pecora e dell’agnello zerasco era stato iniziato un progetto di sostenibilità alimentare. Il desiderio era quello di creare una comunità del cibo intorno a questi animali“.
E poi cos’è successo?
“Sono emerse criticità, conflitti e nuovi limiti. Come ad esempio dover fare i conti coi predatori… Insomma, il processo si è interrotto”.
Qual è il ruolo di Regione Toscana?
“Ha finanziato il nostro progetto sui saperi rurali condivisi nelle valli di Zeri, che poi sono tutti saperi legati alla razza zerasca. La Regione desidera favorire la partecipazione democratica, soprattutto in quei luoghi in cui le comunità possono assumersi la la responsabilità dei processi di sviluppo. Ora siamo ancora nella fase di mappatura delle risorse. Poi individueremo i limiti presenti, ne parleremo insieme, organizzeremo workshop e altre iniziative”.
Concretamente come si declina l’attività progettuale sul territorio?
“Abbiamo sottoposto il questionario di mappatura ai principali attori sociali per dare il via a un reale processo di animazione territoriale. Abbiamo iniziato a ottobre e andremo avanti fino alla prossima primavera”.
Dalle interviste fatte è già emerso qualcosa?
“Sì, un grande carico di lavoro sugli allevatori. C’è un grande burnout”.
Descrivici la situazione.
“Di solito all’interno dell’azienda lavorano una o due persone. Sono loro a occuparsi di tutto, dall’organizzazione alla comunicazione. È anche evidente come uno dei limiti del progetto sia aggiungere un altro carico alle loro giornate. Praticamente impossibile”.
E quindi?
“Sono io a intervistarli. Li seguo durante il lavoro, mentre allevano o mungono, col questionario in mano. Faccio le domande e compilo i moduli con le risposte che mi danno. Per loro è impossibile fermarsi. Tant’è che, per farli parlare tra loro, vorremmo metterli tutti insieme per una sera, seduti qua, al tavolo della cooperativa per una cena condivisa”.
“Ho ascoltato il racconto di Mario, allevatore di 80 anni. Ho faticato a non piangere. Questo per lui è l’ultimo anno, poi mollerà”
Qual è la tua sensazione di fronte a tutto questo?
“Ho la consapevolezza di essere di fronte a una storia bellissima. Loro sono i custodi di una razza in estinzione, ma la stanchezza di condurre battaglie quotidiane li sta sfiancando“.
Gli allevatori sono dei superstiti, proprio come certi animali che rischiano di estinguersi.
“Recentemente ho intervistato Mario, allevatore ottantenne. Ascoltando il suo racconto ho faticato a non piangere. Questo per lui è l’ultimo anno, poi mollerà. La storia di Zeri è una storia particolare”.
Perché?
“Qua tutti avevano delle pecore. Non moltissime, spesso anche quattro o cinque. Ma erano allo stato brado e tra loro c’era una sorta di rete informale. Anche se svolgevano altri lavori, le pecore zerasche di fatto si guardavano da sole. Ora non è più così. E il figlio di Mario, ad esempio, non può proseguire l’attività del padre. La situazione è cambiata”.
Quanti sono oggi gli allevatori?
“Una ventina, la metà dei quali aderiscono al Consorzio. Tra l’altro il progetto ricalca il percorso e la missione del Consorzio stesso che non voleva tutelare solo la zerasca, ma tutti i saperi collegati alla zerasca e a questa terra”.
Ad esempio?
“La pecora a fine carriera. Qui era presente un’economia circolare ante litteram, non si sprecava niente. Oggi quando non sono più produttive c’è chi se ne libera spedendole sui camion in cambio di pochi euro. Ma si potrebbero mangiare. Penso ai sughi, allo spezzatino e non solo. Per farlo, però, sono necessarie risorse”.
Tra l’altro la razza zerasca è anche presidio Slow Food.
“Sì, dal Salone del gusto del 2000. Quello con l’associazione di Carlo Petrini è un rapporto che si mantiene ancora oggi”.
Chi sono i “custodi”?
“Le donne. Questa storia è infatti legata a loro, che sono le vere custodi della terra. La sostenibilità è in mano alle donne, la storia di Zeri lo dimostra. Anche la cooperativa Valli di Ziri è tutta al femminile“.
A proposito di etimologia, perché Ziri e non Zeri?
“Ziri è il toponimo antico di Zeri, che significa ‘zirare’. Ovvero gigare, che deriva dalla giga. Insomma, è un ballo. Proprio come la piva e la quadriglia”.