C’è stato un periodo negli anni ’90 in cui i Casino Royale erano uno dei gruppi più famosi in Italia. Dischi come Dainamaita, Sempre più vicini e CRX hanno dato voce al disagio di una generazione che faticava a trovare il suo posto nel mondo.
Il loro sound tra ska, hip-hop, rock e elettronica che guardava a quello che succedeva a Londra in quel periodo con artisti come Tricky, Massive Attack, Portishead, Bjork ha cambiato il modo di fare musica in Italia e resta ancora oggi insuperato.
Giovedì 14 dicembre i Casino Royale tornano in concerto al teatro Garibaldi Milleventi di Prato con una nuova formazione tra veterani e nuove leve che custodisce al suo interno l’anima della band impersonata da Alioscia, leader da oltre 20 anni.
Sarà un live denso e libero da ogni catalogazione, un mix generazionale, un racconto in cui verrà ripercorso l’intero universo sonoro che li caratterizza.
I CR proporranno i nuovi brani tratti dal loro ultimo Ep Polaris, ma anche i classici della band riproposti in chiave contemporanea. Non una celebrazione nostalgica, ma un’immersione nel qui ed ora che dura dal 1987.
Ecco la nostra intervista a Alioscia
Ciao Alioscia! Oggi sei un uomo poliedrico, sei un musicista, ma gestisci anche l’Elita bar a Milano, mi sembra un momento molto bello della tua vita
È bellissimo sentir parlare della propria vita dagli altri e come dire, ti fanno notare come il bicchiere sia mezzo pieno. Diciamo la verità io non sono mai stato un musicista nel vero senso della parola, nè accademico, nè a tempo pieno. Anche nella mia “golden age” anni ’90 avevo la casa occupata, facevo il gestore di tutte le attività che c’erano nel centro polifunzionale che era il Garigliano Social Club. Mi occupavo di programmazione musicale, di cibo e beverage perché avevo un ristorante e c’era una parte creativa che aveva a che fare con la musica e con tutto l’indotto di comunicazione e immagine che si legava alla musica. Quando si sono fermati i Casino Royale la musica ha preso una porzione un po’ inferiore della mia vita e ho cominciato a fare svariati lavori. La mia scuola è un po’ il do it yourself del centro sociale della scena anni ’80. Ho cominciato a organizzare eventi, fare progetti di marketing, ho lavorato in televisione, ho aperto il bar, è nato il collettivo che organizzava Elita festival, adesso faccio anche il curatore di un progetto musicale a Matera che si chiama OSA. Insomma ho sempre fatto 300mila cose contemporaneamente e mi sono sempre domandato: ma se avessi dedicato più tempo alla musica cosa sarebbe successo? Ma la verità sta nel fatto che per come vivo io la musica, devo vivere una vita normale, fare tante cose per poi dopo avere gli stimoli per scrivere. Non potrei mai chiudermi in casa e fare solo canzoni. Io racconto pezzi di vita e li creo incontrando gente e lavorando, osservando come cambia il mondo e la musica. Per cui diciamo che io faccio tantissime cose e poi ogni tanto mi chiudo nella bolla della musica e faccio una sintesi, è un privilegio.
Non potrei mai chiudermi in casa e fare solo canzoni. Io racconto pezzi di vita e li creo incontrando gente e lavorando, osservando come cambia il mondo e la musica
Parlando della vostra “golden age” degli anni ’90, come tu l’hai definita, io ero una vostra grande fan, riascoltando i vostri testi mi ha colpito quanto fossero filosofici, voi vi interrogavate sul senso della vita, erano dischi potenti
Sono stati dischi importanti per tanta gente. Quando devo fare i conti col nostro successo, che non è mai stato economico, per me il successo è sentire gente che viene al bar, mi riconosce e mi ringrazia, o incontrare musicisti che mi dicono: se non avessi sentito i vostri dischi non sarei stato lo stesso. Io accetto tutto questo con estrema felicità e un po’ di imbarazzo, compensa l’onestà intellettuale che ci ha sempre contraddistinti. Lo capisco perché per me è stato lo stesso con altri gruppi. Ci sono stati ascolti o immaginari in cui sono entrato che sono stati quasi più formativi della mia famiglia, questo è il potere della musica.
Anche i suoni erano incredibili, quando uscirono i vostri dischi non c’era niente di paragonabile in Italia
Una cosa che si dice è che noi siamo stati bravi in quel momento perché abbiamo prodotto la nostra musica senza seguire qualcosa che era successo all’estero ma in contemporanea. Il nostro suono, con la nostra italianità, era frutto della sintesi di un percorso di controcultura, di appartenenza che faceva parte di movimenti underground.
Con i vecchi componenti della “prima fase” dei Casino Royale come Pardo, Giuliano Palma, vi sentite ancora?
Ci sono state tante fasi dei Casino Royale, tanta gente è entrata e uscita. L’esperienza dei Casino Royale con Giuliano è finita quasi all’inizio degli anni ’90. Già da Dainamaita quando abbiamo iniziato a sperimentare un po’ di più, c’erano visioni diverse. Poi sai, finchè le cose vanno bene sono tutti bravi, appena c’è un problema “te l’avevo detto, hai sbagliato”. Non ci sentiamo, ma è capitato che siamo saliti su un palco assieme, una cosa che sembrava molto difficile, dato che dall’oggi al domani è “andato a comprare le sigarette” sabotando un progetto costruito in dieci anni che era un asset di vita importante. È stato un matrimonio molto lungo, per amore della band abbiamo trascinato delle cose per tanto tempo, c’era chi aveva voglia di andare avanti e chi invece voleva una dimensione più personale. Però per chi ne ha fatto parte qualla con i Casino Royale rimane sempre un’esperienza indentitaria. È un po’ come quando ti lasci col fidanzato, poi passano gli anni e rileggi quella cosa in maniera diversa.
Mi ha stupito vedere che nella nuova formazione c’è anche Marta Del Grandi una giovane artista che apprezzo molto, come è arrivata nei Casino Royale?
Marta l’ho conosciuta in un contesto in cui facevo il tutor in un workshop durante una residenza artistica. Ci siamo trovati subito in feeling, c’è da dire che lei ha lavorato con Howie B per cui avevamo anche un amico comune. Da lì è nata questa liason artistica in un momento in cui lei non era ancora così consciuta in Italia. Ha sempre lavorato tantissimo all’estero, adesso giustamente vedo che comincia ad essere rinosciuta anche qua. Lei è una che nuota controcorrente e ci ha sempre stimati anche se è cresciuta ascoltando altro. Abbiamo giocato insieme in un pezzo che è “Cospiro”, secondo me una delle canzoni migliori del disco ed è una delle prime cose che lei ha cantato in italiano. Sono contento di averla a bordo, è una che ha la sua vita, però come dire è una splendida compagna di viaggio. La chiamiamo Biancaneve perché ci sentiamo i sette nani.
Se nelle nuove generazioni sentiamo tutto questo disagio senza speranza forse dobbiamo farci delle domande, non sono difetti di fabbrica, sono figli nostri
I Casino Royale sono nati e cresciuti a Milano, una città che è sempre stata molto presente nei vostri pezzi. La definivi “Milano fratricida”, com’è cambiata negli ultimi anni?
La cosa interessante è che io ho sempre trovato una risposta empatica da persone che non vivevano a Milano. Certe energie della dimensione cittadina sono molto simili. Milano ha avuto tante fasi, c’è stato un momento che era depressa, dall’Expo in poi ha avuto una sorta di Rinascimento ma io ho una visione abbastanza critica di certe dinamiche. Penso che sia una città dominata un po’ troppo dal marketing, sta diventando una città che punta ad avere non una cittadinanza ma un’utenza di privilegiati, che poi alla fine hanno intorno gente che fornisce servizi che fa fatica a vivere la città per un discorso di forbice economica e di affitti. Milano offre opportunità ma devi essere disposto a girare col coltello tra i denti. Questa cosa non va di pari passo con la qualità della vita, è una città per ricchi. Se hai vent’anni può andare bene, ma quando metti su famiglia è un grosso problema.
Approposito di famiglia, nelle vostre canzoni parlavate delle difficoltà di una generazione che si poneva “contro” tante cose. Cosa succede quando si passa dall’altra parte, quella dei padri?
Crescendo sei un po’ più obiettivo perché ti metti nei panni degli altri, ma c’è da dire che è difficile fare paragoni, perché in quegli anni c’era un modello di famiglia genitoriale che era di un altro secolo. Era una situazione relazionale molto differente, noi siamo una generazione che nel bene e purtroppo anche nel male siamo molto più simili ai nostri figli. La mia adolescenza è molto più simile a quella che ha fatto mia figlia, rispetto a quella di mio padre che l’ha vissuta nel dopo guerra. Tutto è più complicato, noi siamo una generazione che fa fatica a crescere, siamo dei giovani cinquantenni brizzolati e tatuati. Se nelle nuove generazioni sentiamo tutto questo disagio senza speranza forse dobbiamo farci delle domande, non sono difetti di fabbrica, sono figli nostri, è una catena. Tutto è da contestualizzare nel mondo di adesso con il crollo delle ideologie, ormai è tutto mercato, ego, celebrità, consumismo. Sicuramente ho anche rivalutato tanti aspetti su cui ero molto critico, perchè diventare genitore non è facile. Allo stesso tempo non posso dire che a cinquant’anni sono rassegnato. A me del passato non me ne frega un cazzo e lo dico in maniera amorevole, non voglio celebrare quello che è stato. La mia sfida adesso è raccontare non quello che eravamo, ma quello che siamo diventati e quello che possiamo diventare ancora.