Pietro Poponcini la mattina del 29 giugno del ’44 aveva nove anni e con il padre Aldo vide bruciare Civitella. Dal paese si alzava un muro di fiamme e fumo nero. L’aria era piena delle grida della gente intrappolata nelle case date al fuoco.
Il comando tedesco aveva scelto il giorno della festa dei santi Pietro e Paolo per colpire perché il paese era pieno di persone che non si erano recate nei boschi o nei campi a lavorare, restando a casa o andando a messa.
Partirono tre squadroni della divisione “Hermann Göring” per una rappresaglia: uno destinato nella frazione di Cornia, l’altro a San Pancrazio e un terzo, il più grande, verso il centro di Civitella.
I soldati tedeschi entrarono nelle case trucidando donne, uomini e bambini. Le violenze più crudeli si consumarono nella chiesa di Santa Maria Assunta dove freddarono i civili con dei colpi alla nuca. Poi incendiarono le case di Civitella, per uccidere quanti avevano provato a salvarsi nascondendosi nelle cantine o nelle soffitte.
In pochissimi riuscirono a salvarsi dal massacro. Si contano 244 morti: 115 a Civitella, 58 a Cornia e 71 a San Pancrazio.
Pietro Poponcini, 89 anni, ha condiviso con Intoscana.it la sua storia, all’alba del 25 aprile. La sua memoria è custodita nell’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano, che lo ha visto finalista al Premio Pieve Saverio Tutino 2017.
Pietro, qual è il primo pensiero che le viene in mente se torna indietro a quegli anni della guerra? Il primo ricordo di suo padre Aldo?
“Il nostro primo incontro, la prima volta che l’ho chiamato babbo, avevo sette anni. Pensare che ho passato con lui solo un anno della mia vita. Nel maggio del ’43 ci arrivò un telegramma, mio padre sarebbe tornato dall’Africa Orientale perché avevano bisogno di un tecnico ferroviere. Com’ero felice! Finalmente lo avrei conosciuto. Mi recai da solo a piedi alla stazione di Ponticino per accoglierlo. Un viaggio lungo, otto chilometri tutto da solo. Però non sapevo che faccia aveva, come lo potevo riconoscere? Pensai: sarà vestito da soldato. Scese un uomo in divisa e io cominciai a correre e a chiamarlo ‘babbo! babbo!’, mi sbracciavo alla stazione, poi lo raggiunsi e lo abbracciai forte. E’ il mio primo ricordo con lui, il più felice. Nella strada verso casa, mi chiese se avevamo patito la fame quando non c’era, se eravamo stati malati. Mi sentivo importante in questo colloquio. Ero orgoglioso di raccontargli di noi. Era il giorno più bello della mia infanzia, il giorno in cui avevo incontrato il mio babbo. Era il mio idolo, era premuroso, affabile. Poi mi insegnò tante cose. Ma le cose belle si sa, durano poco. Durò solo un anno”.
Arriviamo al 29 giugno del 1944, la data dell’eccidio di Civitella, cosa ricorda di quel giorno?
“Nei primi giorni di giugno del 1944 arrivarono nella frazione di San Martino in Poggio tre pullman di tedeschi e piazzarono un’antenna sul campanile della chiesa. Vedevo delle lucine, un pullman era una stazione radio. Sentivo babbo parlare con altri uomini, era preoccupato per la presenza dei tedeschi.
Il 29 di giugno del ’44 per la festa di San Pietro e Paolo babbo non andò a lavorare, davanti alla nostra casa arrivarono tre tedeschi, due avevano il cannocchiale e uno faceva la spola dalla stazione trasmittente. Io e babbo si uscì di casa e qui inizia il dramma.
Un tedesco porse a babbo il cannocchiale. Babbo vedendo Civitella bruciare, i lampi di fuoco e gli scoppi di bombe disse sottovoce le parole che non posso scordare: chissà quanti innocenti vengono assassinati. Aveva ragione. Ma lì si condannò
.Cosa successe?
“Questo soldato a quella affermazione tolse la pistola dalla fondina e la piazzò con rabbia alla testa di babbo e urlando con parole che non capivo lo costrinse in ginocchioni a chiedere perdono e implorare che non lo ammazzassero. Ma questo insisteva. Il soldato non sparò è babbo se ne andò nei campi, sparì tutto il giorno. Rientrò la sera tardi e non era più l’uomo di prima. Era fatto serio e taciturno. Fu talmente cattivo quel gesto che mio padre non lo superò psicologicamente, quel giorno mio babbo non fu ucciso fisicamente ma nell’animo. E’ inumano e non mi vergogno a dirlo”.
Il colle di San Martino non era più un luogo sicuro per la famiglia Poponcini che il giorno seguente si rifugiò nella casa colonica di Piazza Gianni. Ogni giorno padre e figlio cercavano nella campagna qualcosa da mangiare cercando di sfuggire ai soldati, fino al 9 luglio del 1944, giorno in cui cambiò tutto.
“Pietrino, avvisami quando arrivano i tedeschi che io mi nascondo”
“Babbo mi ordinò di stare attento perché quando vedevo i tedeschi lo dovevo avvisare che lui si nascondeva. Aveva paura. Era un continuo andirivieni e io stavo attento e tante volte lo avvisai. Fino al 9 luglio. La mattina vidi quattro tedeschi venire su che correvano da uno stradone, io lo dissi a babbo e lui si nascose. Ma dopo un’oretta ritornano e disgraziatamente passarono da un’altra strada e io non li vidi e trovarono babbo che lavora, faceva le traverse dei binari.
Lo presero e lo costrinsero con il mitra a seguirlo. Vieni con noi o rauss! Poco dopo si sentirono cannonate e spari e il mio babbo lo ammazzarono
Mamma corse subito perché si immaginò che fosse lui e lo trovò morto in un campo, lo prese come un sacco nelle spalle, era incinta, e lo portò in una casa colonica li vicina, la notte fu sotterrato in un campo”.
Dopo come avete vissuto lei e sua madre?
“Abbiamo patito la fame e il dolore. La mia sorellina morì nel parto. Mamma fu costretta a mandarmi in un orfanotrofio per quattro anni. Non lo auguro a nessuno quello che ho patito. In quei quattro anni è venuta solo tre volte a trovarmi e io l’ho preso come castigo, come la punizione per non essere riuscito a salvare il mio babbo. Ho passato notti in cui lo sognavo sempre, che mi volevano uccidere, cose brutte”.
Perché ha deciso di raccontare oggi questa storia e di consegnare la sua memoria all’Archivio Diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano?
“Questa è una testimonianza in memoria di mio padre per il dramma che mi porto dentro
Dopo tutti questi anni mi sento in colpa, penso a lui tutti i giorni, guardo la sua fotografia e ci parlo, come fosse qui. Sento il bisogno di raccontare la sua storia, anche ai ragazzi. Solo lo scorso anno sono andato in venti scuole. Io lo devo ringraziare l’Archivio dei Diari, mi hanno aiutato a liberarmi, perché finché non ho scritto questa storia la tenevo dentro di me, era un rimorso continuo. Non ho scritto tanto da giovane, ho dovuto imparare di nuovo a scrivere da grande, perché ho perso la mano destra in un infortunio sul lavoro. Così ho imparato a scrivere daccapo con la sinistra. Mia madre era anziana ma mentalmente lucida e le dicevo ‘Mamma mi racconti quando ero piccolo?’ e lei mi raccontava, e io ho iniziato a scrivere e a ricordare. Dopo ho raccolto questi fogli e li ho portati a Pieve. Mi hanno aiutato molto. Anche quest’anno tornerò al Premio, sono affezionato”.
Domani a Civitella in Val di Chiana ci sarò il presidente Mattarella e lei lo incontrerà, cosa gli dirà?
“Lo ringrazierò per portare onore ai caduti innocenti della guerra, non solo babbo, ma tutti. Mi ricordo in orfanotrofio eravamo tanti orfani di guerra. I nostri cari hanno bisogno di essere ricordati”.
Oggi la guerra è presente in tante parti del mondo e i bambini pagano un prezzo altissimo. Lei che ha vissuto la guerra…
“Io mi metto nei panni di tante bambine e bambini dell’Ucraina, di Gaza, in Africa, di tutto il mondo, che devono sopportare disagi, perdita dei genitori, la fame. Patiscono quello che ho patito io, sono solidale e dico ai giovani di oggi ‘quanto siete fortunati voi che non patite tutto questo’. E’ uno strazio dove i genitori non riescono a salvare i loro bambini. Sono cose che non devono succedere”
Pietro, questa è una storia triste, ma la sua vita non si è fermata a quel 1944. Dopo 89 anni di vita le chiedo, cos’è la felicità?
“Ho avuto una moglie speciale che ci siamo voluti bene fin da ragazzini, sempre insieme. Ho avuto l’amore di mia madre e l’affetto grande di mio figlio e sono contento. Bisogna imparare ad apprezzare un piccolo sentimento, una piccola gioia, un momento felice. Io parlando con lei lo sono tanto”.