OPINIONE/

Trump e social, servono nuove regole

La decisione di “far fuori” il presidente USA segna probabilmente un punto di non ritorno. Ma le domande da porsi sono tante…

La caricatura di Trump in una maschera del Carnevale di Viareggio

Molti sinceri democratici e paladini “alla Voltaire” della libertà di pensiero (ricordate: «Non sono d’accordo con quello che dici ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo»)  si sono scandalizzati per la sospensione dai “social” del presidente USA Donald Trump temendo che, al di là delle posizioni espresse, questo potere unilaterale di filtro possa essere esercitato in futuro in modo arbitrario.

Tema controverso. Se parliamo solo di social network e quindi di reti sociali (esistenti anche prima del digitale) e in questo ambito qualcuno non rispetta delle regole annunciate in precise policysiamo di fatto su piattaforme private – non vedo davvero di cosa ci sorprendiamo. Le norme non le dettiamo noi, più che in una piazza libera siamo in un “club” decisamente affollato le cui dinamiche di funzionamento – algoritmi o controllo umano – non coincidono totalmente con quelle cosiddette liberal-democratiche del gioco pubblico partecipativo e pluralista.

Così come io posso bloccare dalla mia bacheca chi infrange i principi etici o comportamentali del mio profilo, allo stesso modo, da grande demiurgo, il proprietario ultimo della piattaforma interviene sulla base di un principio vago e incerto di rispetto di una presunta verità. Certo, ci aspetteremmo da lui un grande potere equilibrato di “vigilanza”, ma non è scontato.

Come facciamo a trasformare questi player – mossi prioritariamente da ragioni commerciali – in soggetti equiparabili ai grandi gruppi editoriali o giornalistici, a cui imporre regole ben precise che tengano conto dei principi costituzionali comunemente intesi di libertà di espressione e pluralismo?

Altra cosa se guardiamo giustamente a questi luoghi virtuali come social media, piattaforme di interscambio di contenuti anche ad alta o bassa connotazione informativa; agorà digitali, sempre più centrali per la costruzione delle opinioni seppur colonizzate dal marketing politico e dalle strategie di costruzione del consenso; ambienti “editoriali”, infine, usati loro malgrado (?) come mezzi  – quasi “broadcasting”  – di informazione e comunicazione e per la poderosa raccolta di dati per fini espliciti oppure occulti e, a volte, illegali di profilazione.

Alcune domande

Ma qui allora mi aspetterei che la riflessione si spingesse ancora più in là. Come facciamo a trasformare questi player – mossi prioritariamente da ragioni commerciali – in soggetti equiparabili ai grandi gruppi editoriali o giornalistici, a cui imporre regole ben precise che tengano conto dei principi costituzionali comunemente intesi di libertà di espressione e pluralismo? E’ una strada percorribile?

Perché abbiamo lasciato in tutti questi anni che il dibattito pubblico/politico confluisse prevalentemente su questi spazi digitali e sempre meno sui media tradizionali (la fuga dei lettori) o nei luoghi delle istituzioni, nelle piazze, nelle assemblee, nelle microdimensioni territoriali del confronto partecipativo? Processo ineluttabile con modalità “novecentesche” definitivamente superate? Perchè nulla è stato fatto per contrastare la creazione di questi “oligopoli”?

Perché i politici hanno invaso i social cercando la totale disintermediazione e, al contempo, le grandi testate giornalistiche hanno rincorso passivamente l’agenda-setting imposta dalla pancia digitale del web con un abbraccio diabolico tutto giocato tra visibilità, contenuti, investimenti pubblicitari e distribuzione?

E, infine, parliamo di censura: ma perché, prima come ora, il potere distorto di “oscurare”  – nella costruzione della cosidetta opinione comune – persone, idee, lotte, gruppi, fatti non era già esistente, subdolo, grigio, seppur limitato soltanto a chi era deputato “professionalmente” a produrre informazione o ad animare la sfera pubblica?

Da un grande potere comunicativo derivano grandi responsabilità, non solo comunicative. Fino a quando la section 230 resterà in piedi – “Nessun fornitore o utente di un servizio informatico interattivo dovrà essere trattato come l’editore o il responsabile di qualunque tipo di informazione pubblicata da un altro soggetto” – sarà difficile per il web (per come lo conosciamo oggi) voltare realmente pagina.

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