Dal Pallonetto di Santa Lucia, da una “stanzulella” della casa dove è nato Massimo Ranieri si vedeva il mare di Napoli. Poi sono stati costruiti palazzi e il mare non si è visto più.
“Un po’ come in questo momento strano che viviamo oggi”, racconta l’artista dal Teatro Verdi di Firenze. Troppa tecnologia. “Basta premere un tasto ed è fatta. Il problema è proprio lì: tra noi e la realtà, quella vera e quella virtuale, sono stati costruiti muri. Ma come direbbe il mio amico Pino Daniele O’ mare sta sempre là, bisogna solo andarlo a cercare”.
Definisce così “eroico” il proprio pubblico, quelli che sono usciti di casa per venirlo ad ascoltare, a cercare il mare anche dove non c’è. Fuori piove, siamo in una città ma Ranieri è riuscito a far arrivare fino a qui il colore di quella distesa d’acqua che vedeva dalla sua finestra, quell’onda che rende energia ai sogni.
Sono dunque i sogni il filo conduttore di un concerto che mette insieme i successi straordinari dell’artista napoletano da “Rose Rosse” fino a “Vent’anni” e “Perdere l’amore”. E poi “Erba di casa mia” o l’intramontabile “Se bruciasse la città”. Brani che Ranieri ha accompagnato con le canzoni del suo ultimo album di inediti, uscito meno di un mese fa dopo un’attesa di venticinque anni.
“Grandi artisti che hanno scritto per me meravigliose canzoni“, ha detto. Testi poetici e musica di Giuliano Sangiorgi, Bruno Lauzi, Franco Fasano, Pacifico, Pino Donaggio, Gianni Togni, Ivano Fossati e molti altri.
Io sono innamorato dell’amore, mi piace proprio assaje. Non ci voglio rinunciare neppure alla mia età”
Decenni di musica, di arte, di teatro, di palcoscenico. Ranieri mette in scena tutto il suo essere istrionico. Alza gli occhi e ringrazia Giorgio Strehler per cosa è riuscito a farlo diventare, per quello che è riuscito a tirar fuori da un ragazzo con una bella voce ma che doveva ancora imparare tutto. E oggi quel “tutto” diventa impeto travolgente, passione senza freni, ritmo e dolcezza. Come un ciclone che imperversa e ti lascia ammirato a osservare la potenza della natura.
Quello di Massimo Ranieri è stato proprio così, uno spettacolo potente, un po’ come i cicloni e un po’ come l’amore. “Dal 1964 avrò cantato 450-500 canzoni, il 95% di queste canzoni parlano d’amore. Io sono innamorato dell’amore, mi piace proprio assaje. Non ci voglio rinunciare neppure alla mia età”.
Un amore che all’artista è “scivolato sempre dalle mani”. “Non sono mai riuscito a trattenerlo”, ammette. “Sono un traditore, un traditore seriale. Ho sempre tradito le donne con il mio lavoro. Il mio lavoro è la mia vita, è come fare l’amore ogni volta”.
Quando sono nato nessuno mi ha insegnato a sognare, poi ho iniziato pure io. Ho imparato e continuato a farlo, mai smettere
Ecco quella passione che muove le persone, che innalza l’animo umano, che riempie i giorni di vita. Quella passione che muove i sogni stessi. “Eppure quando sono nato nessuno mi ha insegnato a sognare”, confessa Ranieri, quinto di otto figli di una famiglia per la quale le priorità – negli anni Cinquanta – erano ben altre. “Poi un giorno mi sono scocciato. Ho detto voglio iniziare a sognare pure io. Non solo ho imparato ma ho continuato a farlo, mai smettere. Io sogno non è poi così diverso da io sono, no?”.
Una domanda che dice tutto. Ciò che si vuole essere, diventare, non parte forse da un traguardo, seppur difficile da raggiungere? “Chi non sogna ha già perso in partenza”, continua Ranieri mentre la sua musica diventa carezza dopo le parole, una storia che vola verso un tempo indefinito, quello che permette di non porre limiti a ciò che si può desiderare.
Sono andato in psicanalisi ma la mia malattia era la musica
Ranieri parla al pubblico e parla a se stesso, alle personalità che convivono da sempre nella sua anima. Quella di Giovanni Calone, “nato grazie a mia madre”, dice lui. E quella di Massimo Ranieri, “nato grazie a mio padre”. Un incontro tra l’uomo routinario, da pantofole e divano e il sognatore, quello che cavalca un’energia indomabile, fino a vincerla e farla sua. “Sono andato anche in psicanalisi ma poi il medico mi ha detto che la mia malattia era la musica”.
Quella musica è malattia e vita, quel palco che è terra dalla quale elevarsi in volo, quell’armadio a sei ante che contiene i suoi sogni. “Le cellule possono invecchiare ma i sogni no, io sogno ancora di innamorarmi”.
Al Verdi tutti si alzano in piedi per “O’ mast”, per quella vita che prende forma sul palcoscenico. Quella vita da annusare, sentire, osservare. E per scoprire che sì, il mare esiste ancora, anche dentro un teatro d’inverno.