La stagione stragista italiana ha vissuto varie fasi, alternando bombe a silenzi carichi di tensione. Una strategia di gruppi terroristici che ha segnato politicamente e socialmente il paese, per destabilizzarlo. Ci sono però attentati che più di altro hanno marchiato le coscienze e la storia d’Italia, altri invece che sono passati come minori. Ne è un esempio l’esplosione sul treno Italicus tra Bologna e Firenze, il 4 agosto del 1974, che fece 12 vittime e 44 feriti. Viene ricordata come la “strage di nessuno”, senza colpevoli e mandanti dopo venti anni di processi, anche se la lunga istruttoria ha parlato chiaramente di matrice ideologica fascista.
Il libro “Ragnatela nera. L’eversione di destra e la strage dell’Italicus” di Alessio Ceccherini – storico, classe 1980 e insegnante di storia e filosofia al liceo Agnoletti di Sesto Fiorentino – vuole posare una nuova luce su quei fatti di 50 anni fa, perché l’Italicus fu tutt’altro che una strage minore, ma il culmine e il giro di boa dello stragismo golpista di destra. La Regione Toscana dedicherà al ricordo dell’attentato una mattinata di confronto con storici e superstiti il prossimo 12 novembre.
Professor Ceccherini, perché il paese ha perso memoria sulla strage dell’Italicus?
All’oblio ha contribuito un’istruttoria condotta male, che è durata sei anni prima di produrre i primi rinvii a giudizio. Rinvii che avvennero praticamente due giorni prima della strage alla stazione di Bologna nel 1980. Inoltre, a farne una strage dimenticata fu anche il fatto che non si è mai costituita, fino ad oggi, un’associazione dei familiari delle vittime, essendo questo un treno, un bersaglio in movimento, e non un luogo identitario come per esempio una città.
La strage di Bologna si chiama così perché ha colpito la stazione, quindi è diventata un simbolo anche della lotta al terrorismo; c’è la strage di Piazza Fontana, la strage di Milano, la strage di Piazza della Loggia, la strage di Brescia. La strage dell’Italicus, di fatto, è la strage di nessuno.
Invece questa è una strage importante per capire il periodo storico in cui ci troviamo. Lo spiega nel suo libro
La ricerca mi porta a dire che siamo al culmine del terrorismo di destra, contestando anche la storeografia data a questo evento. Quando si parla di strategia della tensione si attribuisce una periodizzazione che va dal ’69, con la strage di piazza Fontana, e la si fa finire nel ’74 proprio con l’Italicus. L’impressione è che l’Italicus fosse stata valutata come una specie di evento arrivato dopo tempi massimi, quasi un titolo di coda del terrorismo di estrema destra, e questo è un grosso abbaglio perché c’è fino alla metà del 1975 uno stillicidio di attentati. Arrivando a soli due mesi dalla strage di Brescia, più che un colpo di coda del terrorismo si parla di un punto di non ritorno.
Sono anni decisivi, in cui cambia anche il contesto politico e sociale
Soprattutto tra il ’75 e il ’76, c’è una ondata di repressione forte che era già iniziata nel ’73 con lo scioglimento di Ordine Nuovo e la messa sotto inchiesta di Avanguardia Nazionale, le due principali organizzazioni della destra aggressiva. C’è effettivamente uno scompaginamento, una disorganizzazione data dagli arresti, dall’incedere delle inchieste giudiziarie e anche dalla fuga all’estero di importanti dirigenti di queste organizzazioni. Inizia una fase diversa, che passa attraverso quello che loro stessi chiamano spontaneismo, ma che è semplicemente una destrutturazione. Qui c’è un grosso vuoto della storiografia da colmare che dura fino alla riattivazione a fine anni ’70. Una pagina ancora non studiata, che però dovrebbe essere considerata in una valutazione complessiva del decennio. Diversa non solo per il contesto storico, ma è come se fosse montata un altro tipo di stragismo.
Lei insegna a scuola, cosa i ragazzi percepiscono di questo periodo stragista?
Fino a non molto tempo fa era non semplice, ma possibile farli calare in quel contesto. Oggi parlare di questi fatti e parlare di un evento storico avvenuto nel ‘800 non è molto diverso, purtroppo. C’è stato un grosso salto generazionale con quello che io chiamo il nostro presente post-ideologico. Capire l’Italia di quegli anni senza capire che cos’era un partito, che cos’era l’ideologia, quanto le persone vivevano di politica giorno per giorno nella scuola, per loro è veramente difficile.
Secondo lei quindi i ragazzi oggi non conoscono nemmeno il significato di “partito”?
Esatto, perché non hanno niente di questo tipo nella loro esperienza vissuta. La confusione quindi per loro è tanta. Anche su aspetti semplicemente lessicali non hanno un legame. Le generazioni precedenti avevano un’infarinatura magari per aver parlato con i genitori, visto un film. Adesso sono i nonni che potrebbero parlarne, i genitori sono addirittura fin troppo giovani per poter raccontare quegli anni. Sulla resistenza, sulla guerra, c’è una memoria condivisa nel paese, invece sugli anni ’70 c’è una memoria praticamente frastagliata e non condivisa. È una storia per cui tutti vogliono girare pagina. Vogliono semplificarla, non accettare la complessità e quindi è un passato che non passa.
Sugli anni ’70 c’è una memoria frastagliata e non condivisa
Però la scuola è il luogo dove si crea la coscienza politica e civile dei ragazzi
I ragazzi sono molto ricettivi, ovviamente non si può fare un lavoro frettoloso di poche ore, si deve fare un lavoro sistematico. Il programma rischia di semplificare soltanto. Alcuni di loro sono venuti a vedere la mia presentazione, spontaneamente. Basta incuriosirli.
È cambiata anche la scuola
La scuola degli anni Settanta era politica, anche nei suoi eccessi. La scuola oggi è funzionalista, è una scuola che prepara molto al lavoro, è competitiva. Di conseguenza i ragazzi sono molto anche provati da questo sistema.