Dopo aver archiviato l’esperienza con il progetto His Clancyness e un silenzio durato ben sette anni, James Jonathan Clancy è tornato con un nuovo disco, un debutto solista che segna per il musicista italo-canadese un nuovo inizio.
“Sprecato” è un album nato in maniera singolare, a partire dai disegni che l‘illustratore Michelangelo Setola ha inviato a Clancy, in un vero e proprio dialogo tra china e chitarra.
Per finire il lavoro è stato necessario l’aiuto anche di altri amici di vecchia data: Stefano Pilia alla produzione e al mixaggio, Andrea Belfi (batteria), Enrico Gabrielli (flauti), Francesca Bono (piano), mentre la band che accompagnerà Jonathan nei live è formata da Dominique Vaccaro (chitarre), Andrea De Franco (synths) e Kyle Knapp (sax).
Il risultato è un disco di rara bellezza tra folk-rock, psichedelia ed elettronica, il racconto di qualcuno che si è perso e che attraversa la notte dell’anima, passando da momenti lirici e poetici ad altri di follia e perdizione, per cui è stata coniata la definizione di “pastorale urbana”.
James Jonathan Clancy sarà in concerto sabato 6 aprile in Sala Vanni a Firenze, in collaborazione con Musicus Concentus.
Ecco la nostra intervista a James Jonathan Clancy
Ciao Jonathan! È la prima volta che fai un disco solista, è un po’ come buttarsi da un aereo col paracadute. Però “Sprecato” non nasce proprio in solitudine, ci sono tanti amici che ti hanno aiutato a realizzare questo disco, a partire da Michelangelo Setola l’illustratore che ti ha mandato i disegni da cui poi è nato il disco
Il disco nasce da lui perché io ero in un momento un po’ difficile della mia vita, c’erano stati tanti cambiamenti, mi ero trasferito a Londra e non stavo scrivendo. Michelangelo autore per Canicola voleva spronarmi a tornare a scrivere e così si è inventato questo stratagemma: mandarmi dei disegni su cui realizzare delle musiche. Non c’era un’idea chiara di dove sarebbe andata a finire questa musica, forse anche questo mentalmente mi ha liberato. Non avevo la pressione di fare un disco. Semplicemente lui mi mandava durante la notte delle scansioni dei suoi disegni e io il giorno dopo cercavo di rispondere mandando piccoli frammenti di canzoni che registravo in casa. Così sono nati i primi tre-quattro pezzi del disco. In particolare i primi minuti della prima canzone che apre il disco “Castle Night” è esattamente quello che io gli ho mandato in risposta a una tavola. Piano piano sono tornato a scrivere e ho cominciato a raccogliere queste canzoni, finchè ad un certo punto mi sono trovato a un bivio. Non volevo proseguire da solo perché sennò non avrei mai portato a termine il disco, e quindi ho iniziato a coinvolgere altri musicisti.
Sicuramente la situazione non è delle migliori dal punto di vista della discografia soprattutto per i piccoli. Però al tempo stesso mai come adesso in Italia ci sono cose interessanti nell’underground. Non vedo una situazione negativa dal punto di vista della qualità delle produzioni musicali, secondo me ci sono un sacco di cose interessanti
Ho letto che a un certo punto hai messo tutto da parte finchè non è arrivato Stefano Pilia che ti ha aiutato a finire il lavoro
Ero un po’ ossessionato dall’idea di fare tutto da solo, mi ero autoimposto di suonarlo tutto io e mixarlo io, era una sfida contro me stesso. Però sono arrivato a un punto in cui non riuscivo più ad andare avanti, io sono uno che anche nei gruppi o progetti precedenti alla fine amo più la dimensione di band, di collettivo. Stefano che è un amico da quando siamo adolescenti, mi ha offerto il suo aiuto. All’inizio ero un po’ scettico all’idea di mettere in mano le mie cose ad altri e farmi aiutare, invece dal primo giorno in cui abbiamo messo mano al disco tutto è stato non facile, di più. Sono riuscito a concentrarmi su quello che volevo mettere nel disco, sulle parti della voce.
Ascoltando il disco mi sembra di cogliere la storia di un personaggio, un “viandante silenzioso che si affaccia sul precipizio” come canti in una canzone, me lo sono immaginato mentre attraversa la notte
Quando Michelangelo mi mandava le tavole io non sapevo come avrebbe composto il suo romanzo che si chiama “Gli sprecati”, quindi come dici te ho traslato queste immagini, che non avevano neanche il baloon, su di me e su quello che stavo vivendo. In quel momento mi trovavo in viaggio, spesso di notte, da solo a Londra, ho legato tutto e alla fine è uscita una storia che mescola il mondo alienante del suo fumetto con quello che stavo vivendo io. Per la sequenza delle canzoni del disco ho messo un ordine preciso nella mia testa per cercare di creare un viaggio, un flusso.
Il disco ha una grande tensione emotiva, si va dalla disperazione alla speranza, da momenti di rabbia a canzoni di grande pace e pienezza, è come se attraverso la musica tu sia riuscito a tirare fuori situazioni di ansia o cose che ti preoccupavano, come per esempio in “Had it All”
Questo disco è sicuramente quello mio più personale, forse crescendo si diventa più saggi, sicuramente mi sentivo molto libero, nei testi ho messo determinate fragilità. Had it All è uno dei primi pezzi che ho scritto non pensavo che lo avrebbero ascoltato altre persone, non sapevo che sarebbe finito in un disco, quindi erano piccole esortazioni che facevo a me stesso in momenti difficili, per cercare di ricordare quali erano le cose positive della mia vita, quindi è come dici.
Fare cultura è già fare politica, a me piace l’idea di fare le cose in maniera concreta. Per esempio se io organizzo un festival voglio che dietro non ci siano sponsor, non voglio vedere sul palco lo striscione della Jack Daniels o della Heineken. L’arte è arte e la cultura è cultura, non deve mai essere incrociata con il marketing
Il titolo “Sprecato” mi ha fatto pensare a un modo di dire che abbiamo qui in Toscana, il cui significato è il contrario di quello letterale. Diciamo “Ti sei sprecato” a una persona che in realtà non si è impegnata per niente. Per te e Michelangelo qual è il senso invece?
Io e Michelangelo scherziamo spesso sul fatto di essere sprecati, nel senso che non arriviamo mai a cento nelle cose, ci auto-sabotiamo, ci buttiamo un po’ via. Mi piaceva usare come titolo una parola in italiano perché ho sempre suonato fuori dall’Italia e mi piaceva l’idea che le persone di un’altra lingua dovessero pronunciare questa parola. Era un titolo netto ma anche un modo per prendermi in giro. Sprecato è una parola seria ma toglie anche un po’ dalla serietà.
Sono tantissimi anni che lavori nel campo della musica, anche dalla parte di chi la promuove, non solo di chi la fa, con la tua etichetta Maple Death. Mi sembra che negli ultimi anni sia cambiato molto non solo il modo di farla, ma proprio quello di promuoverla, di parlarne, in un modo che non sempre fa ‘bene’ alla musica, cosa ne pensi?
Mah, la mia risposta è il fare, anche con Maple Death Records ho sempre cercato la strada di fare, organizzare cose. Sicuramente la situazione non è delle migliori dal punto di vista della discografia soprattutto per i piccoli. Però al tempo stesso mai come adesso in Italia ci sono cose interessanti nell’underground. Forse quando una scena musicale come quella indipendente italiana viene schiacciata o mangiata dal mainstream e dai grandi numeri succede che i piccoli tirano fuori cose più interessanti e spazi nuovi. Mi sembra quello che sta succedendo negli ultimi tre anni. Non vedo una situazione negativa dal punto di vista della qualità delle produzioni musicali, secondo me ci sono un sacco di cose interessanti, che non abbiano molto spazio o che non siano riconosciute questo sì.
Come scegli un progetto per la Maple Death? Immagino che ti arrivino tante richieste
Questo è un momento in cui mi arrivano tantissimi demo e dischi, spesso le cose arrivano anche da amici perché la Maple Death ha costruito intorno a se una comunità di musicisti sparsi intorno al mondo, e succede spesso che mi girino progetti di altri artisti, questo è sicuramente uno dei modi più frequenti. Io devo dire che per fare uscire un disco mi devo innamorare al 110%, sono io quello che poi va in trincea a battersi per quel disco quindi devo esserne innamorato e deve raccontarmi una storia. Penso che una delle particolarità di Maple Death è il fatto che non è un’etichetta di genere, non facciamo solo dark-wave o solo folk. Quello che lega tutti i dischi è di avere una forte narrativa dietro o un forte immaginario. Ogni disco ha una sua particolarità.
So che vieni da una famiglia di attivisti, persone abituate a scendere in piazza per i cortei, in che modo secondo te la musica può essere politica?
Fare cultura è già fare politica, a me piace l’idea di fare le cose in maniera concreta. Per esempio se io organizzo un festival voglio che dietro non ci siano sponsor, non voglio vedere sul palco lo striscione della Jack Daniels o della Heineken. Già piccole azioni di questo tipo fanno tanto perché i ragazzini di oggi sono abituati ad avere branding ovunque. Nel caso di Maple Death sto super attento che questo non ci sia in nessun modo. L’arte è arte e la cultura è cultura, non deve mai essere incrociata con il marketing. Nel mio campo lo declino così, con l’etichetta poi cerco di fare più cose possibili. Ultimamente stiamo organizzando una raccolta per i medici in Palestina, cerchiamo di stare sulle tematiche che ci interessano. Sono tantissime quelle a cui vorremmo dedicare attenzione e nel nostro piccolo ci proviamo, perché fanno parte della nostra vita quotidiana.
“Sprecato” è uscito da poco ma le recensioni sono state tutte ottime, il tour sta andando benissimo, come ti senti dopo aver finalmente fatto uscire questo disco?
È strano, in realtà prima di farlo uscire non ci pensavo troppo. Ero contentissimo, non vedevo l’ora, perché sono soddisfatto del disco e di com’è venuto, però non sapevo cosa aspettarmi. Sono felicissimo della risposta che ha avuto e mi piace tantissimo portare dal vivo questo live perché ha una band con cui è bellissimo suonare. È un live “challenging” per me, nel senso positivo, perché facciamo tutto il disco che è molto denso e ha tante parti diverse. Ogni concerto mi torna qualcosa indietro, è bello.