Mille chilometri sotto i piedi e trent’anni indietro nel tempo nella testa. “L’iguana era a pezzi”, il romanzo d’esordio del senese Giulio Pedani, pubblicato dalla toscana Effequ, si snoda tra due cammini, uno reale e uno fatto solo di ricordi. Il protagonista Cile infatti percorre la Via Francigena dal confine con la Francia fino a Roma per incontrare uno dei suoi migliori amici, Igor, che è ricoverato in coma in un ospedale della capitale.
Nei suoi ventisei giorni di viaggio rievoca la storia della loro amicizia, filtrata attraverso la politica della Prima Repubblica, il cinema, la musica e tutti i personaggi del piccolo borgo della Toscana dove sono cresciuti, insieme all’altro inseparabile compagno, Bush. Sono loro le tre vite che si intrecciano lungo l’antica strada di pellegrinaggio e che Cile ricorda ad ogni passo: come se attraverso l’atto di camminare potesse rielaborare le loro esistenze e inventare un senso nuovo al destino.
Giulio, come nasce il tuo libro? Ti sei davvero avventurato sulla Francigena?
«Nasce come il racconto di un viaggio a piedi in solitaria di mille chilometri, il cammino che compie Cile è una sorta di preghiera laica nell’attesa di raggiungere Igor, che è in coma a Roma. Iggy Pop è il filo rosso che unisce la loro storia, e assieme un amuleto: se l’Iguana ha appena compiuto 72 anni, l’immortalità è un traguardo pressoché alla portata di chiunque. Quanto a me ho percorso effettivamente a piedi, e da solo, i mille chilometri da Oulx a Roma. Sono tornato dal viaggio con alcune decine di cronache, per lo più descrizioni dei luoghi che avevo visto e degli incontri più bizzarri che erano capitati. A quel punto ho immaginato come sarebbe stato se, ad attraversare le stesse regioni e le stesse città, fosse stato qualcun altro, con un obiettivo finale del tutto diverso dal mio, e una diversa storia. Così ho iniziato a innestare, sulla “realtà” del percorso, una storia tutta di fantasia, quella di Cile, Igor e Bush.»
È un romanzo sull’amicizia che racconta cosa significa crescere in provincia negli anni Ottanta: ti sei reso conto di aver scritto un romanzo generazionale?
«Sventolare l’ipotetica bandiera di una generazione, o di una qualunque massa, è una missione lontana dalla mia volontà e anche dalle mie capacità. Detto questo, penso che chi sia cresciuto negli anni Ottanta, in un borgo con Arci e campetto di calcio, leggendo fumetti della Bonelli, accompagnandosi con REM, Cure, Nirvana, tentando di decifrare le discussioni politiche degli adulti, passando mezza vita a cavallo di una bici tra i boschi e il fiume, possa ritrovare in questo libro qualcosa di sé. Come del resto chi, una volta cresciuto, si sia convinto che attraversare il mondo con le proprie gambe è l’anello di congiunzione ideale con ciò che l’uomo è sempre stato lungo i secoli: un essere in movimento, a contatto con le asperità dei territori, le curve delle colline, il sorgere del sole, la luce delle stelle.»
Cosa significa per te camminare?
«La strada, i libri, e adesso anche il mio lavoro, mi hanno portato a vedere il cammino come l’unica vera connessione: soprattutto a ciò che l’essere umano è stato lungo alcune migliaia di anni, prima delle recenti rivoluzioni tecnologiche, cioè una creatura capace di spostarsi grazie al suo corpo, alla sua fatica.
Per me il cammino è una prospettiva diversa e irrinunciabile: a piedi le persone riescono a riconoscersi, e si sorprendono distanti dalla continua, opprimente percezione di minaccia che spesso si respira in buona parte delle piattaforme virtuali e riescono ad assaporare punti di vista sullo spazio che altrimenti sarebbero impossibili; il cammino è anche una banale scorta di endorfine, propedeutica a un’ingegnosa serenità. E anche un miracoloso vuoto creativo in cui si possono rincorrere aneddoti commoventi o atroci della propria vita, nemici, amori, spezzoni di film, fasi politiche, personaggi immaginari, citazioni di attori comici, dischi fondanti, trame paradossali di racconti mai nati. E anche, infine, un piccolo autoesproprio volontario in cui ci si spoglia del superfluo, e si scopre che era superfluo davvero.»
Scrittura e cammino si incrociano nelle opere di molti autori italiani, da Enrico Brizzi a Wu Ming 2, qualcuno è stato per te un’ispirazione o un punto di riferimento?
«Nel mio caso tutto è nato proprio dalla “costola bolognese” di questo ricchissimo filone. Senza “Il sentiero degli dei” di Wu Ming 2 e “Nessuno lo saprà” di Enrico Brizzi non avrei percepito le potenzialità narrative del cammino, né sarei stato invogliato a prendere lo zaino in spalla appena possibile; hanno avuto un peso anche Paolo Cognetti e Luigi Nacci; e uscendo dall’Italia, Sylvain Tesson, Robert Mc Farlane, Patrick Leigh Fermor.»