Si chiama Giovanni Firpo è un regista teatrale che cura l’organizzazione dell’Arezzo Crowd Festival con le Officine Montecristo. Ha una laurea in antropologia ed è appassionato di pellegrinaggi dal 2009, quando ha percorso il cammino di Santiago. Un’esperienza che lo ha portato ad affrontare la vita in modo diverso facendogli scoprire valori come la lentezza, la costanza e la perseveranza che lo hanno aiutato nel suo mondo artistico, professionale e personale. Da allora ha coltivato il sogno di percorrere la via Francigena, vedendo gli incredibili luoghi che attraversa nelle terre vicino ad Arezzo, dove è nato. In occasione del decennale dal suo primo cammino ha deciso di intraprendere questo viaggio e di documentarlo per l’intero percorso da Canterbury a Roma, oltre duemila chilometri che dalle bianche scogliere inglesi passando per le coloratissime vetrate gotiche francesi, si snoderanno tra quattro nazioni, tagliando in due l’Europa, sulle orme del vescovo Sigerico di Canterbury. Ecco la nostra intervista.
Ciao Giovanni dove sei?
Sono ad Arras che è la prima città grande che incontro dopo Calais, ed è tra Calais e Reims. Oggi è l’undicesimo giorno e ho già fatto più di 200 chilometri. Sono partito da Canterbury per arrivare a Roma, dove dovrei arrivare più o meno a metà ottobre. Il cammino dell’arcivescovo Sigerico erano 80 tappe, però questo è un po’ più lungo perchè le strade dove passano le macchine non sono praticabili e quindi bisogna allungare il percorso. Io ho calcolato un’ottantina di giorni, sono partito il 29 luglio, faccio tra i 20 e i 30 chilometri al giorno.
Hai fatto un allenamento particolare prima di partire?
No, no, l’allenamento lo faccio durante. Quando sono partito pesavo 90 chili, spererei di perderne qualcuno.
Come è nata l’idea di fare questo pellegrinaggio?
È nata dal fatto che nel 2009 ho fatto il cammino di Santiago, al tempo iniziava a venire fuori, se ne parlava spesso. Quando l’ho fatto io nel 2009 sono arrivati a Santiago 179 mila pellegrini, quest’anno sono in 380 mila sul cammino. Alcuni miei amici l’hanno fatto e mi hanno detto che è stata un’esperienza molto bella. Io al tempo studiavo Antropologia, ancora non avevo iniziato teatro, non avevo un’idea ben chiara della mia vita. Facendo quest’esperienza di un mese di cammino, saranno stati circa 900 chilometri, mi sono cambiate una serie di prospettive. Ho capito per esempio che serve sacrificio per ottenere qualcosa, che con la lentezza si raggiungono tutti gli obiettivi. Cose che mi sono portato dietro nel lavoro, nella vita. Dopo un paio d’anni stavo lavorando al Festival dei due mondi, vidi che sul ponte di Spoleto c’era un simbolo giallo che indicava il passaggio della via Francigena e da lì mi sono iniziato ad informare e per anni è stato un mio pallino. Volevo farla nonostante sia una strada non facile perché come ricettività non è seguita come il cammino. Tu pensa che con 300 mila pellegrini a Santiago, se apri un chiosco che vende acqua a un euro, potenzialmente incassi 300 mila euro l’anno. Nella via Francigena l’anno scorso sono partiti 1200 pellegrini in totale, siam all’inizio ancora.
Quindi da ora fino ad ottobre sarai impegnato in questo cammino, hai messo un po’ in stand by la tua vita?
No, in realtà ho rinunciato a una produzione a Toronto, ma me l’hanno detto quando ormai mi ero organizzato qui e dato che è una cosa che uno fa una volta nella vita ho preferito rinunciare. Però tutto il resto posso gestirlo da telefono.
Come sta andando il viaggio?
Nei primi 150 chilometri ho trovato due bar e basta, non c’era nessuno e il cammino era conosciuto abbastanza poco. Poi via via, arrivando ad Arras ho iniziato a incontrare un po’ di gente. Rispetto a Santiago il cammino è basato molto di più sull’esperienza delle persone, e sulle persone che stanno facendo vivere questa via. C’è questa signora ‘Bonnall’ ad Arras di cui tutti mi hanno parlato che ha 80 anni e tutti nell’arco di 100 chilometri conoscono la via Francigena grazie a lei. E’ bello perché sto iniziando a incontrare dell’umanità che va oltre il camping. Ieri sono stato in un castello bellissimo che appartiene a una famiglia molto religiosa, è gestito da due vecchi signori che sono pellegrini di professione, loro hanno camminato in tutta Europa, sono stati a Fatima, a Gerusalemme, è bello che si stia creando una comunità. Nel cammino di Santiago la comunità nasce dal fatto che partono mille pellegrini al giorno e tu incontri sempre le stesse persone, si creano legami molto forti dovuti al fatto che fai molta fatica fisica e condividi questa fatica con gli altri. Qui la comunità si crea con persone stanziali che danno vita a rifugi per pellegrini, punti di sosta e dalle loro esperienze, rispetto a un gruppo che cammina.
Com’è il paesaggio?
Il paesaggio rispecchia le persone, è molto strana questa cosa. Poi cambierà molto perché attraverserò le Alpi, la Lombardia, un pezzo di Liguria, la Toscana, il Lazio e altre regioni della Francia, la Svizzera. Per adesso la parte inglese è stata molto ‘inglese’, verde, rigogliosa, fresca, sole ma anche nuvole. La parte francese è tutta un’infinità di mari di grano tagliato fresco, è tutto giallo con balle grossissime e tantissime mucche. Le persone sono alla mano, campagnole, ci sono tantissime fattorie. Tantissime piantagioni di patate e galline quindi mangiano l’omelette con le patate, è molto campagnola, sembra quasi la nostra Toscana, la Valdichiana. Il cielo è sempre enorme, è un cielo che noi non siamo abituati a vedere così grande.
In cosa ti senti diverso rispetto a quando 10 anni fa hai fatto il cammino di Santiago? Cosa ti aspetti da questo viaggio, come stai reagendo a questa nuova sfida?
Lo sto vivendo in modo molto diverso. Il cammino di Santiago fu un’esperienza interiore, una specie di fuga. In questo caso avevo bisogno di fare qualcosa per me, ma anche per gli altri, per questo ho aperto il blog e deciso di fare foto, una cosa che certificasse l’arrivo di un percorso di dieci anni. Questo percorso è l’aver capito che la costanza, la perseveranza pagano sempre in un mondo in cui si cerca di tutto e subito. Questo è quello che io voglio trasmettere: qualsiasi cosa spacchettata in tante piccole parti è affrontabile, anche andare sulla luna. Sto vivendo il viaggio in modo più responsabile, più aperto, è un mix tra una sfida personale e un messaggio sociale. Noi misuriamo il sacrificio con due parti che sono il tempo e il dolore. Il tempo che serve a fare qualcosa e il dolore che si prova a farla. Nel mio caso il sacrificio è avere due mesi e mezzo di tempo e le vesciche sotto ai piedi che mi fanno morire. Il tempo è sempre transitorio, cioè comunque passa, quindi impiegarlo per qualcosa di grande porta sempre un successo.
Continua a seguire le avventure di Giovanni Firpo sul suo blog:
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