Si chiama viticoltura eroica perché si pratica in condizioni ambientali estreme che richiedono uno sforzo maggiore, fisico ed economico, eppure i vignaioli non si lamentano, almeno i pochi che ancora oggi in luoghi impervi la portano avanti. Come i fratelli Rossi, due giovani che con la loro azienda Fontuccia sono diventati il simbolo della rinascita enologica dell’Isola del Giglio.
Qui infatti la vite si coltiva da sempre, sin dal tempo degli Etruschi e dei Romani, in strisce di terra strappate al granito e sospese sul mare, raggiungibili un tempo solo con l’asino e ancora oggi impervie da curare e da vendemmiare.
Per questo negli ultimi decenni molti terreni sono stati abbandonati, sono rimasti solo gli anziani a prendersene cura e molti vitigni di Ansonica – o come dicono i gigliesi di Ansonaco – sono andati perduti.
Simone e Giovanni Rossi invece nel 2009 hanno deciso di andare controcorrente, di rilevare i vigneti trascurati e rimettersi a produrre il vino per cui l’isola è celebre: l’Ansonica.
“La nostra azienda è nata per gioco e poi è diventata una professione – racconta Giovanni – io lavoravo come commercialista ma non mi piaceva e avevamo anche una tabaccheria di famiglia ma la nostra passione era la viticoltura e vedevamo che stava scomparendo in tutta l’isola, perché le persone anziane non avevano un rimpiazzo e stavano abbandonando sempre di più i terreni, così abbiamo deciso di intervenire noi.”
I fratelli Rossi acquisiscono i terreni e da 3mila metri arrivano a possedere 5 ettari in diverse zone dell’isola. “La maggior parte gli abbiamo acquistati dagli anziani, ma ne abbiamo anche in affitto o in comodato d’uso – spiega Giovanni – purtroppo in molti terreni non c’era più la vigna, perché bastano pochi anni senza potarla e zapparla e la vegetazione la soffoca, così le abbiamo ripiantate, ma abbiamo anche due vigneti antichi che risalgano agli anni Trenta, nel sud dell’isola, a Cape’ Rosso e Altura.”
Oggi producono 11mila bottiglie all’anno – ma quando le vigne nuove che hanno piantato cresceranno contano di arrivare anche a 18-20mila – e non hanno invenduto, tutta la produzione viene acquistata da ristoranti e negozi.
La loro etichetta più famosa è il “Senti Oh!”, nata scherzosamente prendendo in prestito una tipica esclamazione gigliese, ma realizzano anche un eccezionale passito sempre dall’Ansonica che si chiama ‘Nartropo’ – perché davvero un bicchiere tira l’altro – e quest’anno hanno lanciato il Cocciuto, fermentato in un’anfora appunto di coccio.
Innovativa in cantina, la Fontuccia è invece super tradizionale in vigna, dove si lavora solo a mano senza nessun tipo di meccanizzazione. “Noi in vigna facciamo tutto come una volta, tutto a mano con la zappa – spiega Giovanni – ci dà una mano Meco, un signore che ha 80 anni, fa questo mestiere da quando è nato e ci dà i migliori consigli. Vorremmo allargarci ancora, l’abbiamo già fatto ma ci vuole tempo prima di vedere i frutti, la vite non è come l’orto, da quando pianti la prima barbatella a quando raccogli qualcosa di decente ci vogliono 7-8 anni.”
La pazienza non può mancare a chi vive e lavora in una piccola isola, dove il tempo scorre meno velocemente che sulla terraferma. Certo, fare vino non è più difficile come in passato, quando anche solo fino agli anni Cinquanta il Giglio era coperto di vigneti, moltissimi sul mare, e si vendemmiava con la barca, perché si faceva prima a trasportare l’uva via mare che a piedi, ma comunque come spiega Giovanni la fatica è tanta e il profitto ancora non proporzionale.
“È stato l’avvento del turismo a cambiare tutto – sottolinea – con lo spopolamento dell’isola c’erano sempre meno persone ad andare in campagna e molte preferivano il guadagno facile con i turisti, è più semplice affittare un appartamento che coltivare la terra.”
Eppure loro e qualche altro giovane del Giglio non si arrendono e continuano a coltivare l’Ansonica, questo vitigno in grado di resistere a climi secchi e di vivere e prosperare anche con poco acqua. In uno dei loro vigneti affacciati sul Tirreno, che al tramonto si incendiano d’oro, i fratelli Rossi conservano addirittura un palmento, antiche vasche scavate nel granito risalenti all’epoca romana, dove l‘uva veniva pigiata fino a diventare vino. Ce ne sono oltre 500 sull’isola, alcuni anche del periodo etrusco: testimoniano un’antica vocazione vinicola che solo la passione dei giovani gigliesi potrà salvare dall’oblio.