La forza (e il limite) della cultura underground è da sempre la stessa: la volontà di restare chiusa nella sua nicchia, di sentirsi diversa per definizione da quel mondo là fuori, così conformista e plastificato.
Però, va detto, in questa città dalle cantine ammuffite e dai piccoli palchi arrangiati alla meno peggio, sono nate grandi band, grandi canzoni, grandi storie che hanno trovato coraggiosamente la strada asfaltata per progettare un viaggio comune condiviso, e forse anche il suono di un’epoca e di una una città.
Accadde nel 1980, quando la new wave fiorentina, dalla cantina in via De’ Bardi e dalla Rockoteca Brighton (Casa del popolo di Settignano), il rock made in Florence spalancò le porte sul futuro: Litfiba, Diaframma, Neon e via dicendo.
Quello era un suono, quelli erano anni talmente luminosi che scegliere l’ombra diventava un vezzo intellettuale, ma anche qualcosa di talmente nuovo e creativo da sfondare ben oltre i confini di una città. E non è un caso se da sempre quei famosi anni ’80 continuano a raccontare la loro storia per ricordarci facce, suoni, percorsi, esperienze.
Anni autoreferenziali, forse anche troppo. Ma è giusto così. Perché, in fondo, quella Firenze era tante cose. E quello fu un triplo salto mortale fatto di energia, moda, cupezza e, soprattutto, nightlife a go go.
Sì, ma oggi? Beh, quarant’anni dopo Firenze cerca di ritrovare la sua identità creativa. Lo fa con quello stesso desiderio post punk dei suoi antenati, ma con altri suoni e meno esplosività. D’altra parte gli Ottanta fondevano l’intimismo dark di Closer dei Joy Division, l’ipnosi umida di A Forest dei Cure e mille altre suggestioni, quelle che nei corso degli anni i Depeche Mode avrebbero trascinato via dall’elettropop per miscelare il tutto in un rock industriale unico e irripetibile.
Da allora la musica è andata in collisione con se stessa: i generi si sono evoluti e involuti, le generazioni arrivate dopo hanno fatto i conti con un dato di fatto: il rock è un questione del novecento. Punto.
Oggi non si cerca un genere, ma l’emozione. Quella conta, solo quella. Uno come Massimiliano Larocca lavora da una quindicina d’anni sulla sua idea di musica e di parola. Le poesie di Campana, l’incrocio col folk, le collaborazioni con Nada e Massimo Bubola, il confronto con artisti internazionali. Dalla Casa del Popolo il Progresso (sempre da un circolo, sembra destino, si parte per un lungo viaggio), all’associazione La Chute, Larocca ha tenuto sempre duro, mettendo insieme anime, idee e, pochi mesi fa, tirando fuori un disco, Exit/Enfer, capace di segnare uno strappo in avanti, come quel corridore che si alza sui pedali e scappa sulla salita più dura.
La produzione di Hugo Race (Bad Seeds di Nick Cave), i suoni desertici di Howe Gelb, la voce di Max (che, come Gelb, è capace di mandarti ko), hanno messo insieme tracce capaci di far luccicare l’undeground senza fargli perdere un filo della sua integrità.
Quella di Larocca è una bella storia e quelle di Ivo Minuti e Alice Chiari (progetto Mago Santo) o di Giorgia Del Mese e La mia s’ignora seguono con raffinatezza queste tracce grazie a personalità tanto oblique quanto affascinanti. Ritrovarsi sul palco del Teatro Romano di Fiesole (domani primo settembre) in questa idea intitolata “Firenze segna”, è anche l’emozione e la volontà di una ripartenza desiderata a lungo nei mesi più duri del lockdown, quelli che hanno ferito una categoria di artisti rimasti soli a combattere con tour saltati, sogni infranti e paure violente. Firenze segna è la voglia di musica e poesia, di farsi vedere, ascoltare e applaudire. Artiste e artisti orgogliosi della loro storia underground ma anche di condividere le loro arte e la loro ricerca con chi avrà voglia di ascoltare. Perché questa città ama anche essere luogo di invenzione, riflessione, empatia.
Firenze segna: la storia ricomincia da qui.