Adriano Andreotti nasce nel 1907 a Pieve a Nievole nel pistoiese ed è il 1932 quando decide di abbandonare il paese in cui non trova più lavoro e di partire per la Libia, dove l’emigrazione italiana, presente sin dalla fine dell’Ottocento, ha assunto tutte le caratteristiche della colonizzazione. Parte con la moglie Maria, la loro prima figlioletta, ancora in fasce, e un bagaglio misero; ma, dice, “in tre non abbiamo ancora quarant’anni e ci sentiamo ricchi”. Le dune, il deserto, il ghibli mortificano le sue aspettative, e deve mettere a dura prova gli studi da perito agrario per tentare di cavare qualcosa da quelle terre aride. Pure, al pari di tanti italiani dotati di buona volontà, di ingegno e della portentosa spinta che deriva dal sentirsi per la prima volta padroni di un fazzoletto di terra, s’industria e ottiene ottimi risultati. Il paesaggio ocra si riga del verde dei vigneti, degli olivi, degli agrumi. Si scava e si ottiene l’acqua dove non si credeva possibile, ci si arrovella per dissalarla e renderla buona per campi e bestie. Si assiste così alla nascita di un paradiso del quale i coloni italiani possiedono le chiavi e, a sentire Adriano, ne dispongono generosamente, favorendo anche i libici. L’Italia è un ricordo distante: la corrispondenza con i parenti, un po’ di burocrazia da sbrigare, la radio. È proprio la radio a interrompere questo sogno, e precisamente il 10 giugno 1940, con la dichiarazione di guerra. Non c’è nemmeno il tempo di pensare, è subito emergenza: Maria e le bambine – sono tre, ora – salgono sulla nave che le riporta in Italia. Adriano viene dapprima fatto prigioniero dagli inglesi, poi lavora per loro. Trascorrono così sette anni, in attesa che i tempi siano propizi e la famiglia possa tornare da lui, in Libia. Non prende nemmeno in considerazione l’ipotesi di dover essere lui a far rientro in Italia: dopotutto, è qui, in Libia, che ha un po’ di terra, e anche se sotto la guerra gli è stata confiscata, ora che gli inglesi stanno andando via in qualche modo potrà rientrarne in possesso. Nel 1947 dunque è al porto di Tripoli ad attendere il ritorno della moglie e delle figlie. Vi resteranno altri dodici anni, finché non sarà più possibile ignorare i trattati italo-libici che reclamano per il popolo nordafricano la restituzione delle terre. Perduta ogni cosa, amareggiato e piagato nel fisico da trent’anni di deserto “gettati al vento”, come ripete, Adriano Andreotti fa ritorno in Italia nel 1959. Muore nel 1970.
Pieve a Nievole (Pistoia), Italia, 1932, all’inizio degli anni Trenta, disoccupato e con una moglie e una bambina appena nata, Adriano Andreotti decide di partire per la Libia “italiana”
“Non è facile decidersi a disfare una casa, messa su da poco per riavere una famiglia, dove quel poco che c’è per te è quasi tutto. Quasi tutto per il tuo spirito, ma se ti manca il lavoro, non mangi ed allora il bisogno ti spinge, ti tormenta, ti rimprovera e ti assilla.
Andiamo? Non Andiamo? Leggo e rileggo chi sa quante volte la lettera che mi hanno scritto. Dice che il lavoro c’è, le paghe sono discrete, la vita non è cara, se vuoi venire, vieni….
Qui invece, al mio paese, non c’è lavoro e non c’è paga. Siamo ormai in tre, i bisogni aumentano, voglio lavorare, voglio guadagnare, andiamo!
Quando la bimba dorme mia moglie, un poco alla volta, raduna le cose che dobbiamo portare con noi. Vedo il mio vestito da sposo, il suo vestito da viaggio, cuffie e scarpette di lana che forse in Africa non serviranno mai, un biberon di ricambio, la biancheria del corredo, le posate dell’astuccio che non abbiamo adoperato mai, l’orologio che ci regalarono… il nostro patrimonio è tutto qui: due valigie ed un baule di roba usata, ma in tre non abbiamo ancora quarant’anni e ci sentiamo ricchi per tutta la vita che è ancora davanti a noi. Del resto, con la paga, speriamo di poterci fare qualche cosa di più.
Lo strizzone lo provo quando vengono a prendere la culla. Non la possiamo portare via, è ingombrante, bisognerà ricomprarla. Peccato, era quasi nuova, ci hanno dato quasi niente. Domani ci dormirà un altro bambino. Penso: già, domani chiuderemo tutto, il fuoco resterà spento, torneranno i topi e di noi, in paese, resteranno soltanto delle date sui registri dell’anagrafe.
Di fronte all’avvenire incerto mi sento prigioniero del presente, di questo presente che si chiama oggi, ultimo giorno. Ogni particolare, la crepa del muro che sembra una saetta, il nodo di un travicello, il chiodo dove era appeso il ritratto di mia madre, mi assilla e mi distrae. Sono già uno straniero a casa mia, la parola emigrante mi scoraggia: sa, per me che non volevo partire, di greggi che transumano verso pascoli meno magri, di uccelli incalzati dalle avverse stagioni che si radunano in attesa del vento propizio per la trasvolata, come si raduna la povera gente che, spinta dal bisogno verso i porti congestionati, va su per la scaletta della nave senza voltarsi indietro, per non piangere. […]
Cerco di fotografarmi tutto nel cervello per portare con me quanto più posso del mio passato: penso, contemplo, ammiro, forse soffro, ma ormai è troppo tardi; alle ruote della vecchia 501 hanno già messo le catene, le valigie sono già sopra, il noleggiatore ha fretta, la mia bambina ha freddo; dico a mia moglie: – Andiamo…
Prima dell’ultima curva, da dove si vede ancora casa nostra con le persiane chiuse, ci voltiamo indietro. Io mi asciugo una lacrima, si asciuga una lacrima anche lei.”
Brano tratto da “Italiani all’estero. I diari raccontano” un progetto realizzato con il contributo della Direzione Generale per gli Italiani all’Estero e le Politiche Migratorie del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. Un progetto di Nicola Maranesi per l’Archivio diaristico nazionale. Consulenza editoriale di Pier Vittorio Buffa. Ricerca d’archivio e redazione testi: Laura Ferro e Nicola Maranesi. Ricerca iconografica e organizzazione delle fonti documentali: Antonella Brandizzi. Fotografie di Luigi Burroni.
Per informazioni.
https://www.idiariraccontano.org/