Il Covid-19 li ha separati fisicamente ma non è riuscito a dividerli: è la famiglia di Alessandro, 53enne ricoverato da quasi 40 giorni all’ospedale di Arezzo a causa del Coronavirus, che ogni sera si riunisce di fronte alla vetrata del reparto di terapia intensiva per parlargli, anche se lui non può sentire niente.
Ogni sera di fronte alla vetrata della terapia intensiva
La moglie Orlinda e le figlie Alessandra e Sara Francesca, 24 e 20 anni, ogni sera per circa un’ora in compagnia di Matteo, compagno di Alessandra, stanno a distanza con Alessandro, dipendente di una ditta di impianti telefonici con una passione per lo speed down che lo ha portato a diventare presidente nazionale della Federazione, anche per seguire la figlia più piccola che lo praticava. Un uomo attivo da mattina a sera. Due anni fa la scoperta di un problema ai reni, con dialisi tre volte alla settimana. Ma non si è fermato. Il 23 febbraio però la scoperta di essere positivo.
A far conoscere la storia di Alessandro e della sua famiglia è stata l’Asl Toscana Sud Est che ha fatto parlare moglie e figlie di Alessandro riunite davanti alla vetrata.
“Ceniamo alla svelta poi veniamo qui – spiega Orlinda – tutte le sere. Arriviamo verso le nove e poco prima delle dieci andiamo via. Abitiamo vicino”. Le tre donne si mettono davanti a una staccionata di legno, un metro e c’è un piccolo avvallamento. Tre metri ed ecco la vetrata dietro la quale si intravede il letto di Alessandro.
“Parliamo con il babbo anche se lui non ci può sentire – racconta Sara Francesca – gli racconto cosa ho fatto e cosa succede”. “Quando andiamo via gli diamo la buonanotte e io gli dico sempre di non fare scherzi – prosegue Alessandra – la notte è il momento più difficile. È lunga e interminabile: quando è giorno ringrazio il cielo perché nessuno, dall’ospedale ci ha chiamato”. “Appena esce – aggiunge -, mi sposo. Deve essere lui ad accompagnarmi all’altare”.
Da dicembre ad Arezzo consentite le visite di giorno ai parenti
Di giorno ci sono anche le visite in reparto: da dicembre all’ospedale di Arezzo è consentito l’accesso dei parenti in terapia intensiva e mediamente ce ne sono cinque ogni giorno.
“La separazione dai propri cari – sottolineano Marco Feri, direttore di Rianimazione e Roberto Bindi, infermiere coordinatore del reparto – è una forte causa di sofferenza per il paziente ricoverato. E per la famiglia poter visitare il parente è uno dei bisogni più importanti. Vedere con i propri occhi il lavoro dei sanitari, consolida poi la fiducia dei parenti nei loro confronti”.
La prima ad andare a trovare Alessandro di giorno è stata Alessandra: il padre era stato appena estubato, “mi rispondeva con gli occhi e muovendo leggermente la testa. Sono stata molto male dopo quella visita. Mi sono fatta forza perché non potevo far vedere come stavo”.
Poi c’è andata Sara Francesca che racconta anche di essersi messa a piangere, per ringraziare medici e infermieri: “Mi sono venuti vicini e mi hanno sostenuta, come se fossi figlia loro. Noi comprendiamo la loro fatica, loro comprendono la nostra angoscia. Una notte hanno anche scostato un po’ di più la tenda per farci vedere il babbo. Noi siamo qui per cercare di fargli forza e trasmettergli la nostra vicinanza anche attraverso un vetro. E continuare a essere la famiglia che siamo sempre stati, uniti in tutto anche in questa situazione”.