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Covid-19 e didattica a distanza: un secondo “round” tra luci e ombre

Intervista all’insegnante Claudia Ortenzi che ci racconta la sua esperienza nell’anno della pandemia da Coronavirus che ci ha obbligati al ‘distanziamento sociale’

Didattica a distanza - © Vovan

La pandemia del Coronavirus ci ha colto tutti di sorpresa. Nessuno mai si sarebbe potuto immaginare di vivere nell’epoca del ‘distanziamento sociale’ con tutto ciò che ne consegue: divieto di assembramento, eventi pubblici cancellati, i luoghi della cultura chiusi e la didattica a distanza per gli studenti. La prima ‘ondata’ ha travolto la scuola pubblica, lasciando sia insegnanti che alunni a doversi organizzare autonomamente per proseguire le lezioni. Per la seconda il Ministero per l’Istruzione ha assegnato alle scuole 85 milioni, di cui 4,8 ripartiti su 476 istituti della Toscana. Attualmente la didattica a distanza è al 100% alle superiori con l’obbligo dell’uso della mascherina per tutti tranne i bambini al di sotto dei 6 anni. Senza voler entrare nel merito di quello che si poteva fare per evitare il rialzo dei contagi quello che ci siamo chiesti è se nel ‘secondo round’ di didattica a distanza gli insegnanti hanno più strumenti per fare il loro lavoro in virtù del rodaggio della scorsa primavera e se il così detto ‘divario digitale’ è stato colmato. Lo abbiamo chiesto a Claudia Ortenzi che insegna francese alle superiori, all’Istituto Salvemini-Duca d’Aosta e l’anno scorso era alle medie, alla Calvino (Istituto comprensivo le Cure).

Ciao Claudia siamo alla seconda ondata di Covid-19 e con essa il secondo ‘round’ di didattica a distanza. Da insegnante come hai affrontato la prima fase 

Fai bene a chiamarlo “round” perché fa pensare a un incontro di boxe e rende abbastanza l’idea! L’anno scorso è stato un vero trauma, affrontato di petto senza mettersi troppo a pensare e cercando di risolvere in concreto dei problemi nuovi e subito urgenti: dotare la scuola di una piattaforma informatica dove poter “far lezione”, fare i salti mortali per riacchiappare tutti i ragazzi e spiegare loro (in videoconferenza o al telefono) come si manda un’email, come si scrive un file di testo e come si allega, come si accende un microfono eccetera, e soprattutto fare in modo che questi strumenti fossero effettivamente accessibili dai ragazzi. Ancora ricordo le email dove il corpo del messaggio era scritto nell’oggetto! Oggetti lunghissimi! E poi abbiamo dovuto reinventarci un altro modo di fare scuola, ammesso e concesso che un altro modo possa o abbia il diritto di esistere e di essere chiamato tale. Scaricare e imparare a usare programmi di cui prima non si conosceva nemmeno l’esistenza, guardarsi webinar su webinar per aggiornarsi in tempo record… Il risultato sono state giornate intere passate davanti al pc senza soluzione di continuità, occhi pulsanti, insonnia e stress à gogo.

Adesso com’è la situazione?

L’impatto del secondo “round” è sicuramente più soft, vuoi perché quest’anno sono alle superiori e lì i ragazzi sono più pratici degli strumenti informatici, vuoi soprattutto perché noi docenti adesso siamo molto più preparati e sappiamo anche quali sono le trappole e gli errori da evitare. Ma è anche vero che, se l’impatto è meno traumatico, l’umore è più nero. Personalmente mi sento affranta e svilita. Chiudere le scuole una seconda volta significa aver perso una sfida. Ma non parlo di noi insegnanti o dei dirigenti. Noi siamo stati bravissimi, e dobbiamo riconoscercelo. È il governo ad aver perso. Sicuramente un modo per evitare una seconda chiusura c’era, ed è incredibile che da marzo non siano riusciti a trovare una soluzione ad ampio raggio che coinvolgesse Comuni, Asl e Usr. La scuola ha chiuso non perché nelle scuole ci si contagi di più, ma perché le Asl non riescono a gestire i tracciamenti. Questo è evidente e l’abbiamo potuto constatare tutti. Avessimo avuto un sistema di tracciamenti più efficiente, un numero di insegnanti e di personale Ata maggiore e più corse e mezzi a disposizione per i trasporti, adesso staremmo a scuola, magari non tutti giorni, ma almeno a turni.

Voi insegnanti siete stati messi in grado la prima volta di svolgere al meglio la didattica a distanza? (Intendo come formazione e come strumenti forniti)

Diciamo che ci siamo messi in grado da soli, insieme ai dirigenti. È stata una grande mobilitazione generale, e forse anche abbastanza caotica all’inizio, nel cercare i mezzi e le risorse necessarie. Abbiamo tirato fuori il nostro miglior spirito di squadra e abbiamo collaborato tantissimo con le famiglie. Se mi chiedi se il Ministero ci ha aiutati in questa fase, ti direi davvero di no, o almeno, non da subito. Direi anzi che siamo stati ostacolati, perché farci chiudere dall’oggi al domani senza neanche darci un misero giorno di tempo per rivedere i ragazzi e provare a organizzarci prima della chiusura è stato un grande schiaffo morale. In quel momento mi sono davvero sentita come su una barca abbandonata dal capitano in mezzo alla tempesta, con mille bambini da salvare e una sola scialuppa di salvataggio. Ma per fortuna che c’erano le colleghe e i colleghi.

Da insegnante hai percepito il così detto divario digitale cioè ragazzi che hanno computer e wi-fi in casa e altri che invece non ce l’hanno e per i quali la DAD sarà un ‘danno’ a tutti gli effetti?

Assolutamente sì. Soprattutto l’anno scorso alle medie. Il divario digitale è tangibile, e bisogna fare attenzione a un aspetto: il divario digitale non consiste soltanto nel non avere uno strumento, ma anche nell’averlo e non saperlo utilizzare, o nell’averlo e non avere le possibilità per poterlo utilizzare, come banalmente una stanza con una porta da poter chiudere per seguire la lezione in silenzio. Il divario digitale si aggiunge cioè al divario sociale, e rende la scuola pubblica una scuola per privilegiati.

Immagino che insegnare attraverso un computer sia molto diverso che farlo dal vivo, cambia tutto, in che modo secondo te?

Sì, cambia tutto. Non so spiegartelo, sono mesi che ci penso ed è una di quelle cose per la quale si trovano difficilmente le parole. Mi vengono solo dei parallelismi. È come andare in bicicletta senza ruote. Te lo immagini? Magari riesci anche ad avanzare e a spostarti, ma sicuramente quello che ne viene fuori non lo chiameresti certo andare in bicicletta. Forse più “arrancare con una bicicletta rotta”. Ecco, fare didattica a distanza è come insegnare con una scuola rotta.

Secondo te la pandemia produrrà una perdita reale e tangibile nell’esperienza educativa dei bambini e degli studenti più grandi?

Certamente, è una perdita già tangibile: le classi che mi sono ritrovata quest’anno non sono affatto al livello che avrebbero dovuto avere. E non perché abbiano saltato una parte del programma, attenzione: l’anno scorso i programmi sono stati svolti quasi interamente. Il problema non è la quantità ma la qualità dell’apprendimento e il livello di competenze sviluppate. Figuriamoci con un anno e mezzo di scuola passato così cosa succederà.

Qual è la reazione dei tuoi studenti alla pandemia, hanno paura? Manifestano stress? Che ti dicono?

Dipende. Molti hanno paura, soprattutto i più grandi, che sono più coscienti e maturi e temono soprattutto per le loro famiglie. Quando ancora eravamo in presenza, un paio di settimane fa, uno studente di quarta mi ha detto di essere andato di sua spontanea volontà fino a Grassina con il pullman per fare il tampone perché in classe avevano un sospetto positivo e non voleva corrrere il rischio di contagiare la nonna che vive con lui. Mi ha fatto molta tenerezza. Poi certo, mi fanno meno tenerezza quando siamo in didattica a distanza e fanno finta che non gli funzioni il microfono o la telecamera! Del resto, la scuola ha anche i suoi aspetti coercitivi, e se i lacci si allentano ci sarà per forza di cose chi se ne approfitta.

Si parla spesso del fatto che proprio i giovani sarebbero vettori della diffusione del virus perché sono meno attenti alle precauzioni anti-Covid, sei d’accordo? È vero secondo te?

Sì e no. Io non farei una distinzione di età, piuttosto di persone e di contesti. Ci sono cioè persone con più senso civico di altre, e poi ci sono anche contesti meno sorvegliati di altri.  Con gli studenti noto che è soprattutto nelle dinamiche di gruppo che scattano i comportamenti più pericolosi. Del resto vale la stessa cosa anche per noi adulti: quando siamo in mezzo agli altri abbassiamo la guardia e tendiamo a conformarci ai comportamenti sbagliati. Quanti adulti vediamo camminare al mercato con la mascherina sotto al naso? Non penso che i giovani siano più incoscienti, lo sono tanto quanto tutti gli altri. Mantenere la distanza è un’azione innaturale che, volenti o nolenti, non riusciamo a mantenere per più di un certo tempo e se non siamo sotto stretta sorveglianza esterna. 

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