Oltre 28mila imprese che valgono il 10% del fatturato regionale, in prevalenza realtà piccole, con un’occupazione soprattutto femminile, e resilienti, perché hanno saputo adattarsi alla crisi innescata della pandemia. È questa la fotografia del commercio in Toscana scattata dal rapporto dell’Irpet, che è stato presentato a Firenze e mostra un settore che si è trasformato nel tempo, sia per il progressivo aumento delle dimensioni medie degli esercizi che per la diffusione della vendita online, ma dove ancora appunto prevalgono piccole aziende.
“È un settore che negli ultimi dieci anni ha subito profonde trasformazioni – ha commentato l’assessore all’economia della Toscana, Leonardo Marras – sono arrivate le grandi catene e prevale l’idea di un commercio legato alle grandi superfici di vendita, anche se in realtà la Toscana resta una delle regioni con il più alto numero di negozi di vicinato e dove quindi la dimensione relazionale costituisce un punto di forza. I numeri parlano chiaro: dal 2007 al 2019 le imprese complessivamente sono calate del 17% e nelle aree interne addirittura del 25%. In calo anche addetti e salari. Insomma luci ed ombre, ma in generale un sistema che ha saputo reggere agli urti più rilevanti, come la pandemia”.
L’avvento del commercio online è stato un fattore determinante. “Un elemento da mettere in evidenza – ha aggiunto Marras – è la capacità del settore di sfruttarne le potenzialità: ha permesso di aumentare l’offerta di servizi e può diventare una chiave di volta per trovare nuovi spazi sul mercato”.
Piccole imprese, diffuse soprattutto nelle aree urbane
Il commercio nella nostra regione infatti, nonostante la diffusione della grande distribuzione, è fatto soprattutto di imprese piccole e piccolissime, il 66% delle quali operano nel settore non alimentare e, di queste, il 25% sono negozidi abbigliamento, 1’8% cartolerie, il 6% calzature e ferramenta. Gli esercizi alimentari sono circa un quarto del totale: il 26% di questi vende prodotti legati al tabacco, il 17% sono macellerie eil 12% negozi di ortofrutta.
In termini di addetti le imprese si concentrano nelle principali aree ubane e in quelle a maggior vocazione turistica dove, sebbene la presenza della grande distribuzione sia consistente, il piccolo commercio prevale per sfruttare la stagionalità dei flussi. Nelle città è importante anche la qualità dei negozi, per la presenza di consumatori in grado di spendere mediamente di più. Situazione opposta nelle aree industriali, dove i piccoli negozi sono più rari anche per mancanza di turisti, e maggiori le difficoltà nelle aree interne appenniniche a causa della riduzione della popolazione.
Nel confronto con Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto la Toscana ha la quota più alta di addetti nel commercio (ingrosso e dettaglio), il 19,9%. In Toscana ogni 1000 residenti ci sono circa 36 addetti al commercio al dettaglio, un dato superiore alla media nazionale, ed è prima per strutture di piccole dimensioni (meno di 50 mq) e ultima per quelle molto grandi (oltre i 5000 mq). Ultima anche per numero di minimercati e supermercati, per superficie di vendita totale, per numero e superficie di vendita per 1000 abitanti.
I lavoratori indipendenti sono il 36% e due terzi degli occupati nel commercio al dettaglio è di genere femminile. Sono i giovani (il 34% ha tra i 15 e i 29 anni) e gli over 50 (34%) ad essere i maggiori impiegati nel settore e prevalgono gli italiani (87%). Lo stipendio medio annuo è circa 22mila euro, -14% rispetto alla media generale.
L’impatto della GDO e la resilienza in pandemia
Dal 2007 al 2019 le imprese del settore sono diminuite del 17%, molto più degli addetti (-4%)., una differenza dovuta alla rapida diffusione dei centri commerciali, che sono diventati anche un luogo di intrattenimento, integrando l’offerta commerciale con servizi diversi, dalla ristorazione all’artigianato di servizio. Gli esercizi più piccoli (fino a 2 addetti), pur continuando a rappresentare tre quarti delle imprese commerciali, sono dimunite di 6.000 unità (-19,4%), così come quelli da 3 a 5 addetti (-16,2%).
È il piccolo commercio alimentare, nel periodo 2007-19, ad aver subito le maggiori perdite, in termini di addetti e di unità locali, rispettivamente -18% e -14%, soprattutto nelle aree interne.
Le province col numero più alto di unità locali per abitante sono Grosseto e Livorno e in termini di presenza di servizi commerciali in rapporto alla popolazione, le aree più turistiche, i sistemi agrituristici e quelli della costa hanno la maggior diffusione.
Durante la pandemia invece il commercio ha saputo attutire l’impatto della crisi meglio di altri settori, ampliando i canali di vendita e riorganizzando processi e spazi di lavoro. Nel periodo 2019-21 le imprese sono diminuite solo del 5%, gli addetti nel commercio al dettaglio del 2,5%. La perdita maggiore si è registrata nelle città (-5,7%), mentre nelle aree interne si è vista la dinamica opposta, con un aumento del 3,3% degli addetti, così come sulla costa (+2,3%).
L’indagine Irpet, infine, ha stimato l’impatto dell’aumento dei costi energetici sul settore, ipotizzando in media per ogni impresa un incremento di spesa di circa 14mila euro: cifre che metterebbero a rischio la sopravvivenza del 5% delle aziende, circa 2mila.
Le principali sfide per il futuro secondo il direttore di Irpet, Nicola Sciclone, “riguardano la digitalizzazione, che va ad incidere sulla modifica del contenuto professionale e sulla necessità di competenze specifiche e quindi anche sulle dinamiche occupazionali rispetto a profili ed ubicazione del lavoro. Le aggregazioni di impresa, che rafforzano i contesti in cui opera l’attività commerciale, mediante la creazione di centri commerciali naturali o distretti urbani del commercio. Ed infine la digitalizzazione dei centri commerciali naturali, che può diventare una possibile strategia per favorire le aggregazioni e garantire la digitalizzazione dei propri prodotti”.