Gli uomini non cambiano, cantava Mia Martini, ma forse l’unico modo di spezzare la catena della violenza di genere sarebbe proprio aiutarli a cambiare, a riconoscere i loro comportamenti abusivi e tossici e a smettere di attuarli, per il bene loro e di tutta la società.
È questa l’idea alla base dei centri per uomini violenti, che in Toscana sono cinque: il primo è stato il CAM (Centro di Ascolto Uomini Maltrattanti) di Firenze, attivo anche a Pistoia e Firenze e aperto sin dal 2009, unico all’epoca in tutta Italia, che oggi aiuta sempre più persone a uscire dalla spirale patriarcale dell’aggressività.
280 uomini presi in carico nel 2022 in Toscana
Nel 2022 sono stati 280 gli utenti presi in carico nei centri toscani – il Lui a Livorno, il Nuovo Maschile a Pisa, il SAM a Grosseto e il Pur (Progetto uomini responsabili) a Carrara – di cui 60 solo al CAM di Firenze, in netta crescita rispetto ai 172 del 2021.
Un lavoro importante, che è stato riconosciuto anche dal Consiglio regionale della Toscana con una nuova legge, approvata ieri, per la presa in carico e rieducazione degli autori di violenza di genere, che prevede che sia istituito oltre all’elenco regionale dei centri antiviolenza e delle case rifugio anche quello dei centri per gli uomini autori di violenza domestica e di genere operativi sul territorio. Inoltre il provvedimento interviene sulla formazione prevedendo che la Regione e le province promuovano iniziative e moduli formativi, anche nelle scuole.
Ma chi è che si rivolge a questri centri? “Fino a due anni fa erano prevelentemente uomini che arrivavano volontariamente, dall’applicazione del Codice rosso del 2019, nel post pandemia, sono aumentati gli uomini che arrivano con pena sospesa, quindi mandati dalla magistratura” racconta Alessandra Pauncz, psicologa, fondatrice e presidente del CAM. Il Codice rosso infatti prevede la possibilità di usufruire della sospensione condizionale della pena per chi partecipa a corsi di recupero specifici.
Un percorso di riabilitazione lungo un anno
Nel caso del CAM il percorso dura un anno, a frequenza settimanale e non sono ammesse assenze. “Dopo una serie di colloqui individuali, con un operatore, in cui viene fatta una prima valutazione del caso, l’uomo viene inserito nel gruppo – spiega Pauncz – sono sessioni che affrontano diversi argomenti, condotte da un operatore e da una operatrice e si parte dalla definizione della violenza, con una parte educativa molto pratica, con esercizi e casi da commentare. Vogliamo aiutare questi uomini a riconoscere i comportamenti che hanno messo in atto, aumentare la loro capacità di riconoscere emozioni e riflettere sui processi mentali che li hanno portati ad agire la violenza, anche stereotipi e concetti impliciti che li hanno fatti sentire leggittimati, e insegniamo loro strategie comportamentali per evitare di essere di nuovo violenti.”
Nel percorso viene contattata, se disponibile, anche la partner o la ex, che nella maggior parte dei casi che arrivano al CAM era stata la vittima del comportamento abusivo, e può così dare i suoi feedback sul reale cambiamento di comportamento innescato dal percorso.
“Sia chi subisce che chi agisce violenza ha dei comportamenti che sono appresi e quindi può modificarli – aggiunge Pauncz – i numeri ci dicono che è possibile, nel caso dei 60 uomini che abbiamo seguito 2 anni fa (sono i dati più aggiornati che abbiamo) la violenza fisica e anche psicologica è scesa tantissimo, sia riferito da loro che dalle loro partner o ex.”
Cambiare la cultura patriarcale per cambiare la società
Cambiare gli uomini quindi non è un’utopia ma un progetto concreto, che lavora per sminare quei costrutti patriarcali e tossici che a volte sono stati appresi in famiglia (secondo l’ultimo “Rapporto sulla violenza di genere in Toscana” il 20% dei maltrattanti ha assistito alla violenza contro la propria madre nell’infanzia, mentre il 21,4% l’ha subita in prima persona) e più spesso sono stati trasmessi, implicitamente o meno, dalla società in cui viviamo.
“Abbiamo un problema di disuguaglianza di genere che si ripercuote in tutti gli ambiti – precisa Pauncz – dalla disoccupazione femminile che è più elevata alla differenza negli stipendi, dalla mancanza di donne nei ruoli apicali a chi dei due lascia il lavoro se nasce un figlio, fino all’assenza femminile nei ruoli politici e di potere.”
“Io prima lavoravo al Centro Antiviolenza Artemisia, quindi con le vittime di violenza, poi ho iniziato una collaborazione con le associazioni che riflettevano anche sui temi della violenza maschile e mi è sembrato importante che si cominciasse a pensare anche alla presa in carico degli autori – conclude Pauncz – dobbiamo spostare il punto di vista, se vogliamo risolvere il problema della violenza maschile contro le donne bisogna andare a monte, ovvero agli uomini. Il problema della violenza contro le donne è un problema maschile, se lo capiamo possiamo cambiare anche le politiche, pensando ad esempio a strutture di ospitalità che prendano in carico gli uomini che possano essere allontanati dal domicilio familiare, bisogna pensare a modi in cui chi paga le conseguenze della violenza sia in primo luogo l’uomo.”