“Ho visto passare tanti carnevali”. Ce lo dice col sorriso sulle labbra. Non per compiacersi della battuta, ma più probabilmente per esorcizzare il passare del tempo. Come a dire: nonostante abbia superato gli ottant’anni, eccomi qua, ancora col martello in mano a battere sull’incudine.
A proposito, le incudini sono due e non una. La prima, per sua stessa ammissione, “è nuova”. Un concetto che nel mondo contemporaneo assume tutt’altri significati. L’incudine nuova risale infatti al 1910 e a comprarla fu suo nonno. Dell’altra, “quella vecchia”, Carlo sa che apparteneva alla sua famiglia già a partire dal 1700. “Ma sicuramente è precedente”, aggiunge. “L’ho ereditata”.
L’antica ferriera Galgani
Ebbene sì, Carlo Galgani è un fabbro. L’ultimo rimasto a lavorare come un tempo. Nella ferriera che porta il suo nome il ferro si scalda col carbone e si distende sotto i colpi del maglio che funziona ad acqua, così come tutto il resto. Perché qua, a Piè Lucese, in una valle del Comune di Pescaglia, in provincia di Lucca, non ci sono né l’elettricità né le utenze da pagare. Oggi parleremmo di sostenibilità, definendo questo come uno spazio autosufficiente dal punto di vista energetico. La verità è che la ferriera di Carlo Galgani sfugge al tempo e alle etichette.
Durante il Rinascimento la sua era già una famiglia di fabbri. Un’attività nata a Piegaio, dove Carlo abita tutt’ora, e che all’inizio del secolo scorso si è trasferita a Piè Lucese, quattro chilometri più in là. Quei quattro chilometri di strada suo padre li ha percorsi a piedi due volte al giorno per sessant’anni, tutti i giorni della sua vita. “Ho cominciato a frequentare la ferriera nel dopoguerra, quando avevo a malapena otto anni”, ricorda Carlo. “All’inizio non venivo tutti i giorni. Andavo a prendere il latte per una signora del paese. Quando la bicicletta non le serviva me la prestava. Mi spostavo con quella”.
“Ho iniziato a frequentare la ferriera nel dopoguerra, avevo otto anni”
Fabbro e costruttore
Ma quella strada, col tempo, ha iniziato a farla a piedi tutti i giorni come suo padre e suo nonno prima di lui. A volte da solo, altre volte accompagnato dal ciuco che Carlo utilizzava per trasportare il ferro e risparmiare così un po’ di fatica. Dall’età di 25 anni ha vissuto qua un giorno dopo l’altro, dalle sei del mattino alle nove la sera, sia in estate sia d’inverno. “E non finiva lì. Di notte costruivo macchinari e attrezzi in quello che ho sempre chiamato ‘l’ufficio’, accanto a casa”. Ha sempre spento i fuochi sia la domenica sia il 10 di agosto, giorno di San Lorenzo. “Fu bruciato sopra una graticola. Un’abitudine tramandata da mio padre”. Però i giorni di festa non sono da intendersi come giorni dedicati al riposo, perché c’è sempre la legna da raccogliere o il campo da coltivare o un macchinario da completare.
Già, i macchinari. Oltre a essere un artista del ferro, Carlo Galgani ha un’altra dote ben poco comune: quella del costruttore. Tra le varie macchine ideate, progettate e costruite – per lo più sempre con materiale riciclato – ce n’è una che ora giace addormentata fuori della sua porta, coperta malamente ed esposta alle intemperie. “Questa serve per tagliare i binari dei treni”, ci dice mostrandola con orgoglio. Nonostante la ruggine e il più che ventennale inutilizzo, quella macchina funziona ancora. Un complesso incastro di ruote e rotelle permette di passare da 1400 a 2 giri e mezzo al minuto. Una riduzione meccanica perfetta.
La prima strada, la prima luce
L’interno della ferriera è buio, scuro. A illuminare gli spazi ci sono i fuochi sempre accessi e i fasci di luce che, complice la polvere, fendono l’aria in un contrasto esasperato e netto, proprio come i tagli delle lame che qua vengono forgiate.
Poggiando le mani sulla schiena curva per gli anni di fatiche e sforzi (“un tempo spostavo l’incudine da solo…”), Carlo ci racconta di come la prima lampadina fu accesa all’inizio degli anni settanta del Novecento, poco dopo la realizzazione della prima strada. “Me lo ricordo bene, era il 24 giugno del 1971” racconta Carlo. “Quel giorno il sole sorse proprio davanti alla porta d’ingresso”. Quella strada non rappresentava il ponte verso la modernità, ma la risoluzione di tanti problemi. “Come la rottura dell’albero del maglio, avvenuta il primo dicembre di quello stesso anno. Pesava sette quintali e senza la strada sarebbe stato impossibile pensare di ripararlo”.
Carlo parla e si racconta, facendo susseguire storie e aneddoti. Frammenti di vita che generosamente condivide con chi lo va a trovare. Una volta a fargli visita erano i contadini con i loro attrezzi da aggiustare. Ma il lavoro nei campi, laddove resiste, è profondamente cambiato. Tecnologia e meccanizzazione hanno ridotto l’utilizzo degli strumenti antichi. “Eravamo soliti dire che la vanga aveva la punta d’oro, perché lavora la terra meglio di qualsiasi altro strumento”. Eppure di zappe, vanghe e picconi se ne usano (e se ne producono) sempre meno. Per questo da un po’ di tempo a questa parte qua si realizzano anche coltelli e ogni tipo di lama. Perfino spade per le rievocazioni storiche. “Anche nella Fortezza delle Verrucole ci sono parecchie cose fatte da me…”.
L’ultimo artigiano
“Insieme al Teatrino di Vetriano sono una delle attrazioni di Pescaglia”
Delle sette ferriere esistenti nella valle, quella di Carlo è rimasta l’ultima. E probabilmente è anche l’ultima in Italia a lavorare distendere il ferro utilizzando la forza dell’acqua, i metodi antichi e la sapienza dei gesti tramandati per secoli da una generazione all’altra.
Un sapere che attira e affascina i visitatori. “Insieme al Teatrino di Vetriano sono forse una delle principali attrazioni di Pescaglia” scherza Carlo, che non è poi così lontano da cogliere nel segno. In un passato neanche troppo lontano il paese ha rischiato di restare senz’acqua, che doveva essere “dirottata” in favore di un’azienda che l’avrebbe imbottigliata e venduta. A seguito della reazioni di artigiani e paesani, la loro storia finì sulla prima pagina della rivista Airone. E così a questo paesino e ai suoi antichi mestieri si cominciarono a interessare le televisioni di mezzo mondo.
Una porta sempre aperta
Ora qua arrivano turisti da Germania, Olanda, Inghilterra, Danimarca, Svezia. Ma anche dall’America, dall’Estonia e da Israele, Afghanistan, Nuova Zelanda, Australia. Vengono ogni anno a centinaia, alcuni con richieste specifiche. “Mi portano i disegni di attrezzi tradizionali, e io li rifaccio per loro…”. Quest’anno la storia non si è ripetuta, o almeno non con la stessa intensità. Colpa del virus. Tant’è che Carlo, all’esterno, ha scritto un cartello che invita a indossare la mascherina e ad entrare non più di due persone alla volte. È scritto a mano, su un foglio infilato dentro a una busta di plastica trasparente.
Tra una fusione, una tempra e un’affilatura, qua il tempo scorre anche per il visitatore, così come costante scorre l’acqua che muove tutte le macchine. D’estate si può sedere sotto gli alberi o tuffare piedi e gambe nel rivolo che lasciata la ferriera si spinge verso valle. Acqua fredda, trasparente, preziosa. Ed è proprio qua, all’ombra degli alberi, che Carlo si riposa nei giorni d’estate. Un’oretta, non di più. “Al piano di sopra ho un letto di foglie di granturco. È molto comodo, ma preferisco dormire all’ombra dei rami e farmi svegliare dal sole”.
C’è ancora futuro
Negli ultimi 41 anni ha lavorato da solo. A Piè Lucese c’erano soltanto lui, l’acqua scrosciante, il crepitio del fuoco e i colpi secchi del maglio. Fortunatamente da un paio d’anni a questa parte ad affiancarlo c’è il nipote Nicola. Di cognome è Biagioni, non Galgani. Ma questo poco importa. Terminata la scuola – e superato il senso di responsabilità per una tradizione che rischiava di spezzarsi – ha deciso di imparare l’arte antica della lavorazione del ferro da suo nonno. È cortese e garbato, anche lui desideroso di mostrare a chi glielo chiede come funziona un maglio ad acqua. Ma la cosa più bella, al di là della trasmissione di un’arte antica a un giovane uomo com’è lui, è vederli insieme, Carlo e Nicola. Nonno e nipote, in posa per noi sulla porta della loro ferriera. Anche questo, come gli altri, è un desiderio esaudito.