Il Centro Espositivo “Villa Pacchiani” di Santa Croce sull’Arno ospita la mostra personale di Binta Diaw dal titolo “Del Cosmo e della Terra”, a cura di Ilaria Mariotti.
Il progetto che ha portato Binta Diaw a Santa Croce sull’Arno ha come obiettivo la realizzazione di processi di dialogo e convivenza tra culture diverse coinvolgendo, in un processo partecipativo, la numerosa comunità senegalese che risiede nel comune toscano.
La popolazione di questo piccolo centro conosciuto in tutto il mondo per la lavorazione della pelle, circa 14.600 persone, è costituita per il 23% da migranti provenienti da oltre 50 paesi richiamati negli anni da un tessuto economico molto dinamico.
Quella senegalese è una comunità molto numerosa e, come per tutte le etnie, la sua composizione vede moltissime seconde generazioni di bambine e bambini, giovani nati a Santa Croce sull’Arno
Dal 20 gennaio al 3 marzo le sale di Villa Pacchiani ospiteranno una serie di opere significative dell’artista italo-senegalese Binta Diaw, una delle voci più potenti tra le giovani generazioni di artisti afrodiscendenti.
Insieme a grandi installazioni, fotografie, video e sculture sarà presentata anche un’opera prodotta dal dialogo tra l’artista e il territorio in un’ottica di reciproca conoscenza.
Binta Diaw, che lavora con diversi linguaggi espressivi si concentra sull’analisi dei fenomeni sociali che caratterizzano la nostra contemporaneità e nello specifico la migrazione, su questioni legate all’identità, all’appartenenza, al genere utilizzando il corpo e lo spazio.
L’artista sollecita costantemente una riflessione a partire dal fatto di essere una donna nera in un mondo europeizzato in un’ottica consapevolmente critica.
Le sue opere sono potenti visioni poetiche che utilizzano la terra, rievocano miti e ricostruiscono avvenimenti storici drammatici per il popolo senegalese, in sospensione continua tra poesia, storia, ricerca d’archivio, rilettura di eventi in un’ottica postcoloniale.
Le opere di Benta Diaw
Nell’installazione Reeni Yakar – les racines de l’espoir, una monumentale scultura fatta di trecce di capelli sintetici cala dal soffitto e si allunga sul terreno. Potente è l’immagine delle radici, evocata dalle grandi trecce di capelli che assumono un forte valore narrativo che ha a che fare con l’identità, racconta generazioni di donne resistenti in epoche diverse.
I capelli femminili sono un’estensione del corpo che le donne dei secoli passati, ridotte in schiavitù, hanno usato, acconciati con elaborati disegni, come segnali di comunicazione, mappe di resistenza e di ribellione. Nelle acconciature fatte con trecce elaborate si potevano nascondere oggetti, intrecciare piccoli oggetti che fungevano da segnali: un codice condiviso solo da particolari gruppi di persone. Le grandi trecce alludono anche alle radici delle mangrovie, rifugio di uomini e donne braccati dai cacciatori di schiavi.
L’altra grande installazione ospitata a Villa Pacchiani, 1.12.44-3, è dedicata a un episodio della storia del Novecento del Senegal. La data a cui fa riferimento il titolo è quella in cui l’esercito francese perpetrò il massacro dei Tirailleurs Sénégalais.
L’installazione è fatta di terra, semi di miglio e mais e dei tipici berretti rossi (chéchia) indossati dai Tirailleurs. La terra, percorsa da solchi dell’aratro, secondo la pratica agricola, è il luogo dell’origine, allude alla vita dei soldati prima della guerra, nella maggior parte dei casi contadini, ma anche alle trincee sui campi di battaglia.
Alcuni dei cappelli sono forati e nel tempo lasceranno spuntare una piantina di miglio o mais, alimento base delle truppe coloniali. Una voce narrante ci porge, come una sorta di archivio orale della strage, rimasta tutt’oggi senza una verità definitiva e senza un preciso bilancio dei morti, frammenti di documenti e una lista di nomi.
Il tema della memoria, collettiva e personale, e dell’artista che rielabora in forma poetica e evocativa eventi storici significativi per la coscienza collettiva è presente anche in Strange Fruit: una bandiera senegalese è legata al soffitto a mo’ di sacco riempito di macerie che la sfondano con il proprio peso.
Nella primavera del 2021 a Dakar la miccia che ha innescato gravi rivolte popolari è stato l’arresto di Ousmane Sonko, il capo dell’opposizione e candidato alle elezioni del 2024. In seguito furono adottate misure che limitavano fortemente la libertà personale: coprifuoco, oscuramento di canali social e altre che rasentavano l’illegalità.
Il contesto è un paese fortemente provato dalla pandemia e che deve fronteggiare gravi problemi sociali, altissimi tassi di disoccupazione e di inflazione, forti disuguaglianze, corruzione e in cui i giovani, in una nazione dove gli under 20 rappresentano la metà della popolazione, lamentano una grave mancanza di prospettive, 13 persone perdono la vita durante le rivolte.
Strange Fruit è un’opera che rende evidente una situazione di forte tensione, una lacerazione ormai irrimediabile, una forza costrittiva che non può più tenere insieme le rovine personali e collettive ma anche la rabbia della rivolta. Il titolo si riferisce alla nota Strange Fruit di Billie Holiday dove lo “strano frutto” è il corpo di un nero appeso a un albero dopo il linciaggio e che oscilla nella brezza.
Black Powerless è l’opera che Binta Diaw ha realizzato in occasione della mostra con i ragazzi e le ragazze di origine senegalese che vivono a Santa Croce sull’Arno destinata alle nuove generazioni nate in Italia ed è un lavoro legato alla questione dello Ius soli.
L’attesa del compimento del diciottesimo anno per ottenere la cittadinanza italiana rende invisibili gli afrodiscendenti, e più in generale, tutte le seconde generazioni di stranieri nate e cresciute in Italia.
L’installazione, costituita da calchi di pugni appesi verso il basso, trae ispirazione dal pugno alzato simbolo del movimento Black Power, con la dolorosa presa d’atto della mancanza di diritti. La colorazione dei calchi è data dal tannino che fa parte di alcuni processi di lavorazione delle pelli e che rimanda direttamente al contesto industriale santacrocese.