La vita riserva sempre grandi sorprese e certi intrecci di destini sembrano scritti da uno sceneggiatore vivace. E così capita di raccontare anche la storia di due medici che sono diventati campioni del mondo. Il primo è Fino Fini, l’altro è Enrico Castellacci. Entrambi toscani, entrambi si sono seduti sulle panchine della nazionale di calcio (per 20 anni l’uno, per 14 l’altro) ed entrambi hanno vinto un mondiale con gli azzurri. Fino Fini lo ha fatto in Spagna nel 1992 al fianco di Enzo Bearzot, Enrico Castellacci in Germania nel 2006 al fianco di Marcello Lippi. Uno fiorentino, l’altro è originario di Portoferraio ma lucchese d’adozione.
Anzi, prima di raggiungere la nazionale Castellacci è stato il medico della Lucchese (e della Juventus, ma questa è un’altra storia). Oggi, tra le altre cose, è il presidente nazionale dell’Associazione italiana medici del calcio (Lamica). Ora che l’amico e predecessore Fino Fini – scomparso nel settembre 2020 all’età di 92 anni – è entrato a far parte della Hall of fame di Figc e Museo del calcio, abbiamo pensato di chiedere al professor Castellacci la condivisione di un ricordo. Una piacevole conversazione che andata ben oltre la memoria.
Castellacci, un suo ricordo di Fino Fini?
“Ne ho tantissimi”.
Ci parli di lui.
“A Coverciano era di casa. Anzi, a dirla tutta era il padrone di casa. E questo non lo dico pensando solo al Museo del calcio, che ha sempre presieduto egregiamente. Fino Fini era davvero un maestro. Abbiamo condiviso tanti momenti bellissimi”.
Di cosa parlavate?
“Di tutto fuorché di medicina. Strano, ma è così. Amava condividere con gli altri i suoi fantastici ricordi”.
Ora entra ufficialmente nella Hall of fame del calcio. È un po’ come tornare a casa.
“Fino non era una persona qualunque. La Federcalcio ha fatto bene a conferirgli questa grande onorificenza. Fino, insieme a un altro straordinario personaggio della medicina dello sport ed ex medico della nazionale come il professor Leonardo Vecchiet, è stato un mito assoluto. Abbiamo sempre parlato molto”.
Anche delle vostre vittorie mondiali?
“Soprattutto di quelle. Proprio come lui ho avuto il picare di essere al fianco di una nazionale campione del mondo. Fino mi ripeteva sempre che ero stato molto fortunato. E aveva ragione”.
E sul piano umano?
“È stato un grande personaggio della medicina, anche se Fino Fini lo ricordo soprattutto come un amico sincero al quale mi rivolgevo spesso“.
Il medico, in una squadra di calcio, si assume grandi responsabilità, che in nazionale vengono amplificate ancor di più. Come avete vissuto quel ruolo?
“Ci siamo confrontati spesso su questo tema. Abbiamo sempre interpretato quello del medico come un ruolo intermedio”.
Cosa significa?
“È un ruolo importante, fondamentale. Il medico è un figura di mezzo, un punto di contatto tra giocatori, allenatori, dirigenti e presidenti. Il nostro ruolo è stato valorizzato nel periodo infelice della pandemia, ma sappiamo bene di aver aver avuto sempre grandi responsabilità. Anche nel mantenere certi equilibri”.
Di quali equilibri parla?
“Spesso nei club, come in nazionale, ci sono tensioni, spinte, pressioni. Soprattutto quando si devono prendere decisioni sull’infortunio o sul recupero fisico dei giocatori. Il medico, al di là delle sue virtù di taumaturgo, deve saper essere anche diplomatico. Eppure…”.
Eppure?
“La medicina dello sport, in Italia, è di alto livello. È un dato oggettivo che ci riconoscono in Europa e nel mondo. Ma i contratti che firmiamo sono privati e non vengono depositati in Lega”.
Perché?
“Semplicemente perché il nostro è l’unico ruolo non riconosciuto dalla Federazione. È una battaglia che stiamo portando avanti da tempo anche con l’Associazione medici italiani del calcio“.
Crede che il premio assegnato a Fino Fini possa facilitare questo percorso?
“Spero di sì. Spero che questa onorificenza possa aiutare la Federazione a comprendere l’importanza di riconoscere e valorizzare la figura del medico sociale. Di questa battaglia ne discutevamo anche con Fino. Non pensavamo solo alla nazionale, ma anche e soprattutto alle squadre di club”.
A proposito di squadre di club, spesso all’interno del gruppo il medico sembra assumere il ruolo di uno psicologo. È così?
“Il nostro ruolo va al di là. Non solo con i giocatori, ma anche con gli allenatori. La psicologia, per un medico sociale, è connaturata al ruolo. Puoi essere un bravo ortopedico o cardiologo, ma se non c’è quell’innata nota di psicologia, be’, diventa difficile vivere in un ambiente come quello del calcio”.
Nella Hall of fame è stato inserito anche Simon Kjaer, cui è stato assegnato il premio Davide Astori. Come capitano della nazionale danase, agli ultimi europei, ha fatto da scudo ad Eriksen dopo il malore. Come giudica quel gesto?
“Le vicende umane fanno emergere la grandezza delle persone. Funziona sempre così. Lei ha usato le parole giuste: ha fatto da scudo. Si è reso conto della gravità, ha offerto la prima assistenza, ha allontanato gli altri… Insomma, ha compiuto le azioni che avrebbe fatto un medico”.
Esiste quindi un percorso educativo e culturale che dovrebbe coinvolgere anche i giocatori?
“Sì. Credo che anche la medicina dovrebbe essere introdotta all’interno dello staff e nel gruppo dei giocatori. E per poter dare una mano nella risoluzione di certi problemi è necessario che a formare siano proprio i medici sociali”.
Oggi che cosa si augura?
“La mia speranza è che venga raccolta l’eredità di Fino Fini e che possa trovare forma concreta nel riconoscimento legale della figura del medico. È una mancanza che stona in un contesto internazionale che valorizza il nostro ruolo, soprattutto in Italia”.