A volte è sufficiente contribuire alla costruzione della normalità per fare qualcosa d’infinitamente grande. Lo sanno bene i genitori di bambini che, più di tutti gli altri, sono bisognosi di cure. Figli malati di tumore, ad esempio. Figli che per mesi o anni sono costretti a frequentare un ospedale d’eccellenza come lo è il Meyer. Figli che hanno famiglie che li seguono un passo dopo l’altro, anche quando quei passi si consumano a centinaia o migliaia di chilometri da casa (quella vera). E qui, a Firenze, intervengono la Fondazione Tommasino Bacciotti e Federalberghi, che con la sua rete d’iscritti ha già messo a disposizione di queste famiglie 300 camere l’anno offerte gratuitamente o a costi molti ridotti da una trentina di strutture alberghiere della città. «Vogliamo che stiamo bene, vogliamo dargli tutto» continua a ripetere Paolo Bacciotti. Dopo la morte del figlio Tommaso, lui e sua moglie, spinti da una solidarietà diffusa, hanno messo su una rete di accoglienza. Oggi si contano 21 appartamenti. Per la Fondazione costano circa 100mila euro l’anno di affitto, mentre 40mila euro sono destinati alle utenze. Una cifra cui si aggiunge tutta la manutenzione ordinaria e straordinaria, ovviamente. Ecco, quegli appartamenti oggi ospitano più di un centinaio di persone. Ovvero i bambini con le loro famiglie. Genitori, fratelli e sorelle, spesso anche i nonni. «Siamo l’unica Fondazione italiana con ventuno appartamenti», aggiunge Paolo. «E sì, vogliamo che stiano bene. Nonostante la drammatica situazione che stanno attraversando, devono stare bene». Ma per capire come si arriva a un accordo con Federalberghi, forse dobbiamo fare un piccolo passo indietro.
Paolo, quello che offrite è qualcosa in più di un semplice appartamento.
«Indubbiamente. Il percorso che abbiamo avviato anni fa per l’ospedale pediatrico Meyer si è rivelato un progetto importante e determinante. L’idea iniziale era semplice: fornire una casa per l’accoglienza delle famiglie. La prima è stata inaugurata nel 2010».
Da cosa nasce questo bisogno?
«Queste famiglie arrivano a Firenze da ogni parte d’Italia. Del resto, per i tumori infantili, il Meyer è un ospedale all’avanguardia. E così le famiglie emigrano letteralmente da regioni lontane. Sicilia, Sardegna, Calabra, Puglia… E ovviamente, giunte in Toscana, cercano anche accoglienza. Insomma, non portano qua i loro figli per un’appendicite. Il percorso dei bambini ammalati di tumore dura anni».
Qual è la vostra personale esperienza?
«Purtroppo con nostro figlio Tommaso non ce l’abbiamo fatta. Però noi vivevamo a Fiesole. In quegli anni io e mia moglie abbiamo visto famiglie che dormivano in macchina, dentro a una roulotte, in stanze fornite dalle parrocchie. Dopo la morte di Tommaso abbiamo pensato che era necessario fare qualcosa. E lo abbiamo fatto».
Perché una casa non è solo una casa. Giusto?
«Per la famiglia di un bimbo malato, un appartamento non corrisponde solo a un aiuto economico. In questi nove anni abbiamo scoperto che è anche un percorso di guarigione. Con una casa offriamo l’opportunità di ricompattare la famiglia. La loro quotidianità si sposta qua, a Firenze. Spesso i fratelli di questi bambini frequentano perfino le scuole della città. E questo dovrebbe far capire, sempre che ce ne sia ancora bisogno, quanto difficile e lungo sia il cammino terapeutico».
Cosa chiedete in cambio?
«Assolutamente niente. Non vogliamo un centesimo. Né l’affitto né il pagamento delle utenze. Anzi, grazie al contributo di alcune aziende che ci supportano, tutti i mesi forniamo 350 euro di prodotti alimentari. Loro, le famiglie, devono concentrarsi sul percorso del bambino».
I vostri appartamenti sono quasi tutti a ridosso del Meyer.
«C’è stato un tempo in cui i bambini non uscivano dall’ospedale per mesi. Ora, pochi giorni dopo l’operazione, ti rimandano a casa. Ma se la tua casa si trova a centinaia di chilometri? Poi si torna in ospedale per la chemioterapia, il day hospital e così via. Dentro e fuori, dentro e fuori».
Perché la disponibilità delle 300 camere offerte da Federalberghi è così importante?
«Quando dopo un anno si va davvero a casa, quella vera, poi è necessario tornare a Firenze per i controlli. A quel punto non serve una casa, ma un bed and breakfast, un residence o un albergo. In questo senso la collaborazione con Federalberghi è fondamentale».
Il vostro rapporto con le famiglie che ospitate?
«Quando consegnamo le chiave di casa e ci stringiamo la mano c’è sempre della commozione. Sanno di avere davanti due genitori che conoscono la loro esperienza, che sanno cosa stanno passando. Si sentono compresi, hanno fiducia».
Questo non riapre le vostre ferite?
«I primi tempi era difficile. Ogni volta riaffiorava il dolore. Poi ci siamo accorti che da queste famiglie riceviamo in cambio la forza e il coraggio. Quella difficoltà, quindi, è stata superata. Semmai…».
Cosa?
«Vede, come già sa, noi non chiediamo soldi. Nelle brochure che distribuiamo non pubblicizziamo neppure il nostro cinque per mille. Vogliamo che queste famiglie si ricordino dell’accoglienza di Firenze, del Meyer, della nostra Fondazione, di Tommasino. Ma certe lettere che scrivono e che ci lasciano prima di partire, be’, quelle lettere rappresentano la nostra più grande soddisfazione».
La collaborazione con Federalberghi dimostra che la città è sempre più sensibile e coinvolta. E ora?
«La nostra volontà è di trovare nuovi appartamenti entro la fine dell’anno. Speriamo inoltre che altre collaborazioni come queste possano nascere ed espandersi. Le persone vanno anche aiutate a capire cosa facciamo. E quello che facciamo, almeno nel nostro caso, lo si può toccare con mano».