Alessio Bondì è un cantautore palermitano, che con la sua musica offre uno sguardo nuovo ed emozionante sul dialetto siciliano, che nelle sue canzoni non è una lingua “di serie B”, ma diventa uno strumento prezioso per esprimere l’inesprimibile.
Dopo un ispirato esordio acclamato da pubblico e critica (Sfardo, 2015), Bondì come un “palombaro musicale” ha iniziato un’immersione sempre più profonda in una Sicilia ora sensuale e ritmica (Nivuru, 2018), ora ispirata da incantesimi e malocchi (Maharia, 2021), ora intrisa di chitarre solitarie e melodie da processione (Spaccaossa OST, 2022).
Con il suo quarto album, Runnegghiè, uscito nel novembre 2024, realizza un mondo sonoro fatto di opposti, atmosfere violente e dolci, cupe e gioiose.
Alessio Bondì riesce nell’impresa (quasi) impossibile di traghettare nel contemporaneo una Sicilia fatta di tamburi rituali, lamentazioni e chitarre mediterranee.
Il dialetto diventa chiave per un’emozione condivisa, comunitaria, che consente di trascendere il proprio sé per giungere ad un’estasi collettiva, pre-linguistica, in cui non importa più chi si è ma soltanto arrivare a disperdersi negli altri, nella musica, nel Tutto.
Ecco la nostra intervista ad Alessio Bondì
Ciao Alessio! Come ti sei avvicinato alla tradizione orale siciliana?
È un bagaglio che purtroppo per la maggior parte si è già perso. Scrivo in dialetto palermitano da dieci anni, avrei potuto occuparmene anche prima. A un certo punto ho deciso che la mia ricerca artistica doveva attingere un po’ di più alla tradizione, anche nei suoni. Perché pur scrivendo in palermitano mi ero fatto sempre guidare nella scrittura melodica e armonica da altre suggestioni, non dalla Sicilia, ma da quello che ho sempre ascoltato, cioè dischi provenienti dal mondo britannico o nord americano. A un certo punto mi è nato l’interesse di esplorare la Sicilia anche col suono, con gli strumenti, non solo con la lingua. Ero incuriosito da questo scenario, dal punto di vista della word music con un’espressione che non mi piace, un po’ colonialista.
canto in siciliano perché mi permette di creare un collegamento forte con una cultura che mi definisce, più aggiungo tasselli più sento di respirare profondo
Piuttosto che far derivare la mia musica da un mondo diverso, volevo andare a cercare il mio mondo. Ho iniziato a pre-produrre l’ultimo disco Runnegghiè, ma mi sono accorto che mi mancavano le informazioni, così le ho cercate e sono giunto a un archivio. Il primo è stato un archivio della Rai, probabilmente il più famoso, quello che contiene le registrazioni della rock star dell’etnomusicologia Alan Lomax che nel ’54-’55, fece una campagna di registrazioni insieme a Diego Carpitella, girarono tutta l’Italia e si dedicarono anche alla Sicilia dove registrarono moltissimo materiale che oggi sarebbe impossibile reperire. Sono canti che si sono persi perchè sono canti di lavoro, di mestieri che oggi sono scomparsi, come conseguenza della grande trasformazione antropologica del dopoguerra, il resto è storia.
Nel tuo TEDX dici una cosa molto interessante, che noi siamo abituati a considerare la tradizione come qualcosa del passato, nel tuo punto di vista è l’esatto opposto, non è il passato che ha bisogno di noi per restare vivo, siamo noi che abbiamo bisogno del passato per sapere chi siamo
Sì anche perché sennò releghiamo la tradizione a un “weekend col morto”. Tu vai nel borgo antico a rivivere la tradizione medievale, in costume, ma è una sorta di sceneggiata. Mentre la mia preoccupazione principale era abbattere questo livello rappresentativo della tradizione e cercare di capire quale fosse l’essenza vera e come questa essenza si potesse tradurre nel contemporaneo e nella mia vita che è la vita di un ragazzo di città. Quindi questa ricerca è una sorta di comparazione costante tra quello che è la mia vita e come la tradizione può servire alla mia vita come artista. È un patrimonio sconfinato e questo è un discorso complesso che passa anche dalla perdita dei riti.
Pensi che il dialetto ti permetta di esprimere cose che in italiano non riusciresti ad esprimere?
Si, certo, così come l’italiano mi consente di esprimere cose che il dialetto non mi consente di esprimere. Diciamo che ogni lingua è come un parco giochi. L’italiano mi da una possibilità, il siciliano me ne da un’altra. Io ho avuto un’intuizione a un certo punto della mia vita e sto continuando a seguirla, non è detto che farò questo per sempre. Canto in siciliano perché mi permette di creare un collegamento forte con una cultura che mi definisce, più aggiungo tasselli più sento di respirare profondo.
Il dialetto: un viaggio nel Profondo
Hai detto che per te è il dialetto un canto quasi magico
Si è una scrittura magica, un modo di pensare magico perché in realtà la cosa interessante e di grande valore è il fatto che questi che noi chiamiamo dialetti, ma che poi dialetti non sono, sono stati parlati dalla nostra gente, dalle nostre famiglie, dal nostro sangue per un millennio circa, da quando il altino si trasforma nelle lingue locali italiane. Arriva fino a noi con una risonanza, un’eco che arriva da secoli e secoli. Purtroppo nella storia del siciliano e del parlermitano c’è una storia di mutilazione, di autocensura. Perché non solo subiamo la cementificazione della conca d’oro dal punto di vista architettonico e urbanistico, avviene anche culturalmente con l’abbandono totale del dialetto. Asfaltiamo anche la lingua, a causa di una storia che ha risvolti coloniali e risente del fatto che qui c’è stata e c’è una presenza mafiosa importante dalla quale una parte della città si allontana e si autocensura nella lingua, perché quella lingua ricorda a tutta Italia che siamo mafiosi.
Nella storia del siciliano e del palermitano c’è una storia di mutilazione di autocensura. Qui c’è stata e c’è una presenza mafiosa importante dalla quale una parte della città si allontana
Deve essere una cosa pensate da vivere
Si traduce in una sorta di vuoto gigante, noi abbiamo una voragine dal punto di vista musicale e linguistico. In tutto questo scenario che sembrerebbe solo negativo si salva un pensiero magico che riesce a sottrarsi alla modernità, permane nella lingua un elemento magico inteso in senso antropologico, che precede il pensiero capitalista. L’uomo che ancora ha delle visioni, le interpreta in un modo che non è quello scientifico.
Passando a parlare del tuo ultimo disco Runnegghiè, cosa ti ha ispirato a comporre questo disco?
Tante cose, principalmente c’è stato questo grande stop della pandemia durante il quale ho scritto tanto, e sono anche cambiato profondamente. Gli interrogativi che ha suscitato questo stop sono stati fondamentali, è stato un evento incredibile in cui tutto il mondo si è allineato allo stesso diapason. Abbiamo tutti fatto pensieri sulla malattia, sulla morte, sulla vita, su dove stiamo andando come umanità, come mondo, il Capitalismo cosa sta generando. Avevamo del tempo per riflettere profondamente su dei misteri che tentiamo di ingannare con la ricerca scientifica, ma di cui in realtà non sappiamo nulla. Vita e morte sono misteri che l’uomo non riuscirà mai a domare completamente. Tutto questo mi ha portato a ragionare su questi temi, ho studiato il dionisiaco che permea la cultura del sud italia, lì abbiamo trovato delle risposte importanti. Tutti questi pensieri, lo studio e la ricerca poetica hanno portato a Runnegghiè che è un disco che riflette sul tema della perdita. Tutto brilla quando sei in una situazione di privazione, si attiva qualcosa.
Vorrei chiederti com’è nata la canzone Taddarità che è la mia preferita del disco. Una canzone strepitosa in cui un innamorato si paragona a un pipistrello che cerca la luce, la luce è la sua amata
Mio fratello vive a Firenze da vent’anni e proprio qui stava per nascere il mio primo nipotino, mi è esplosa nel cuore una bomba d’amore. Io non sono proprio razionale nella scrittura delle mie canzoni, quindi ho scritto una canzone preso da questa dolcezza estrema. Per il ritornello ho usato una mitragliata di frasi che mi diceva mia madre e che tutti i siciliani hanno sentito “Sangue mio, cuore mio, gioia mia, vita della mia vita”. È un modo di esprimere affetto per i bambini quando sono molto piccoli, devo a mia madre almeno un paio di punti di Siae.
A Firenze sarai in solo?
Sarò in duo con il mio produttore Fabio Rizzo. Suonerà una chitarra particolare, che ha inventato lui. Noi la chiamiamo la “chitarra palermitana” perché è uno strumento che ha fatto modificare da una liutaia, affinchè potesse includere quelle note in più che ci sono in tutto il bacino del mediterraneo, in tantissima musica popolare e arcaica. È una tendenza microtonale, come se tra il tasto bianco e il tasto nero del pianoforte ci fosse un tasto in più, un quarto di tono. In quel modo lui può emulare le melodie del palermitano.
