Anestetizzati agli eccessi. È quello che siamo, complici le iper-stimolazioni che spesso non lasciano spazio né alla riflessione né al pensiero. Non c’è più nulla che sia davvero in grado d’indignare. Eppure stavolta sembra che sia stato superato il limite. Se anche Giorgia Meloni si schiera in difesa del neo ministro Teresa Bellanova, in quota Pd, significa che è davvero troppo. «Un ministro va giudicato per il lavoro che fa e non per come si veste», ha detto la leader di Fratelli d’Italia.
Ma dov’è che ha origine lo sconcerto? Sui social, nel giorno del giuramento del governo (bis) di Conte. Ad essere presa di mira è proprio la neo nominata Teresa Bellanova, cui spetta il ruolo di ministro per le politiche agricole. A suscitare la campagna d’odio, che è cresciuta fino a diventare una vera e propria onda di bullismo digitale, sono due semplici questioni: la prima, esclusivamente estetica, è l’abito del ministro («Carnevale? Halloween?» scrive l’ex parlamentare di Forza Italia, Daniele Capezzone); la seconda ha invece a che fare col titolo di studio (la terza media).
Tralasciando ogni spiegazione sull’abito, sia chiaro a tutti quelli che ancora non hanno letto la storia della Bellanova che lei, fin da giovanissima, ha lavorato come bracciante. Poi l’ingresso in Federbraccianti, seguita dalla lotta al capolarato e da altre battaglie sociali che ha trasferito in ambito politico. Competenze e valori che l’hanno portata a ricoprire per ben due volte l’incarico di viceministro.
«Sono attacchi gravissimi. La questione è seria» commenta decisa Rosanna Pugnalini, presidente della Commissione pari opportunità della Regione Toscana, proprio mentre l’hashtag #TeresaBellanova è primo nella classifica delle tendenze italiane di Twitter. Come lei si sono schierati con la Bellanova anche Nicola Zingaretti, Andrea Orlando, Matteo Renzi, Laura Boldrini, Mara Carfagna. La lista è lunga e trasversale. Perché stavolta non è una questione di appartenenza al partito. Si tratta piuttosto di una battaglia culturale.
«Quando una donna assume un ruolo istituzionale, la stragrande maggioranza delle volte subisce attacchi sessisti» insiste Rosanna Pugnalini. «Attacchi che sono legati all’essere donna e all’aspetto fisico, come in questo caso. Ho la sensazione che viviamo in una società impreparata, che non riesce a concepire le donne in ruoli istituzionali. Insomma, agli uomini si fanno attacchi politici e non si criticano la giacca o la cravatta. Ecco, mi aspetterei la stessa cosa anche per le donne. Se invece si parla di vestiti, be’, allora è chiaramente un attacco sessista».
La presidente della Commissione pari opportunità è convinta che la strada sia ancora lunga e in salita. «La campagna d’odio degli ultimi mesi non ha certo aiutato», aggiunge. «Così come non aiuta l’uso indiscriminato dei social».
Ovviamente i cattivi non sono i social network. Quelli sono solo dei contenitori. «La politica dovrebbe dare il buon esempio, uomini o donne che siano» prosegue Rosanna Pugnalini. «La questione è tutta culturale. Occorre combattere gli stereotipi. Come? A partire dalle scuole, fin dalla più tenera età. Il tema dovrebbe rientrare nei programmi didattici. Il rispetto, in senso assoluto, s’impara a scuola, in famiglia, nelle relazioni sociali. E senza rispetto non c’è neppure parità di genere».
Il percorso della Commissione sta per giungere al termine. Almeno per quel riguarda il mandato in corso. Qual è il bilancio? «In merito alle politiche di genere, ho trovato una situazione in cui le donne rivendicavo spazi in quanto donne. Il nostro lavoro ha influito nella legittima rivendicazione delle competenze femminili» risponde la presidente. «Detto questo, c’è ancora molto lavoro da fare perché le donne non investono abbastanza sulle donne. Occorre coordinarci al meglio, bisogna fare squadra. Dobbiamo concentrarci collegialmente sul superamento del maschilismo e degli stereotipi».