Un ritorno in grande stile per i Giardini di Mirò che saranno in concerto sabato 16 febbraio alla Flog di Firenze. La band originaria di Cavriago dopo quasi quindici anni è tornata a collaborare con Giacomo Fiorenza, il produttore col quale aveva realizzato i primi due album “Rise and Fall of Academic Drifting” e “Punk… Not Diet”, due dischi fondamentali per la storia e l’evoluzione della scena Indie italiana. Per la label 42 Records, una delle etichette più importanti del panorama nazionale (I Cani, Cosmo, Colapesce, Any Other tra i tanti) è da poco uscito “Different Times” un viaggio strumentale in equilibrio tra passato e presente, che ben traspare dalla title track dove il classico sound dei Giardini di Mirò viene screziato di suggestioni inedite e dallo spiccato sapore cinematografico. Ecco la nostra intervista a uno dei fondatori: Corrado Nuccini.
Ciao Corrado sono passati ben sette anni da ‘Good Luck’, cos’è successo in tutto questo tempo?
Dal 2012 ad oggi i Giardini non si sono fermati, hanno pubblicato un album nel 2014 che si chiama ‘Rapsodia satanica’, nel 2016 abbiamo fatto la ristampa del nostro primo disco con un po’ di date. Nel mentre abbiamo suonato e devo dire che l’attività del gruppo non si è mai fermata in questo tempo che visto così sembra molto lungo. In realtà ci sono stati in mezzo anche altri episodi musicali, io ho registrato diverse cose con Emidio Clementi dei Massimo Volume, Jucca Reverberi ha fatto un paio di dischi con Max Collini degli Offlaga Disco Pax per il progetto ‘Spartiti’. La musica è sempre stata centrale nella nostra esistenza in questi sette anni, quindi per noi la vita non è cambiata particolarmente. Posso dire che la gestione di questo album è stata particolarmente lunga. Dal 2017 fino all’uscita siamo stati impegnati a registrare, certo non tutti i giorni, ma in una maniera piuttosto continua.
Passando a parlare del disco “Different Times”, la title track inizia con dei suoni che mi ricordano versi di un animale marino, una balena o forse un delfino. Che cosa sono?
Sono presi da una banca dati di un musicista che si chiama Chris Watson che ha realizzato delle raccolte ambientali di suoni che noi abbiamo utilizzato. Watson lavora per la BBC in ambito di documentari naturalistici, in particolare nel ‘field recording’, ha raccolto suoni che ha poi archiviato come suoni di terra, d’aria e di acqua. Ci piace molto perché ha fatto un disco che si chiama ‘El tren fantasma’ ed è la storia di questo treno messicano che non porta da nessuna parte. Ha fatto una registrazione in cui si sentono solo i suoni del treno che avanza, come se fosse qualcosa che proviene da un mondo naturale o sovrannaturale.
Avete dichiarato più volte che “Different Times” è un album sul tempo, che rapporto avete col tempo? Buono o cattivo?
Il tempo è un elemento assolutamente fondamentale e costitutivo non solo di questo disco ma di tutta la nostra produzione. In generale i titoli arrivano come una visione, a un certo punto del lavoro qualcosa ti fa ‘toc-toc’ ti dice: ‘io chiamerei quello che stai facendo così’. E infatti è successo così, una sera mentre tornavamo a casa dalle registrazioni mi è venuto in mente questo titolo. All’inizio pensavamo che non fosse particolarmente ‘forte’, perché alla fine si rischia di cadere in un cliché, ma alla fine abbiamo perseverato nell’idea. Devo dire che tutti i discorsi che facciamo a partire dalla tua prima domanda, sono basati sul tempo. Credo che volenti o nolenti nella percezione di tutti, nella musica che spesso anticipa le emozioni che percepisce nell’aria che magari ancora non si capisce bene quali siano ma ci sono già e anche nel vostro lavoro di giornalisti, ci sia una chiara percezione del fatto che è in atto un cambiamento, il mondo si sta trasformando, questo nostro secolo sta prendendo una forma diversa. È una percezione che viviamo tutti la questione del tempo, è sempre molto attuale. Il tempo in sé è un elemento estremamente poetico perché è freddo, non è buono né cattivo, non è lungo, non è corto, è matematico ma è anche infinito, ha qualcosa di estremamente potente in sé. Anche noi all’interno di questo percorso musicale non capiamo se siamo agli inizi, alla fine, a metà o a tre quarti, l’indagine sul tempo quindi è stata fondamentale.
Passando ad un altro pezzo, mi ha colpito molto ‘Pity The Nation’, mi chiedevo se in qualche modo si ispira alla poesia di Khalil Gibran che ha lo stesso titolo
Assolutamente sì, nello specifico alla versione che ne ha fatto il poeta americano Lawrence Ferlinghetti. L’idea iniziale era quella di inserire l’audio di Ferlinghetti proprio all’interno del pezzo, poi non ci stava per questioni di lunghezza quindi ne abbiamo fatto una melodia un po’ robotica-aliena che è diventata una canzone. La cosa sconvolgente del testo è la semplicità con cui mette a nudo determinate situazioni che non parlano di Salvini, Putin o Trump ma di ‘leader bugiardi, saggi messi a tacere e bigotti che urlano in radio’. Parole che ci riportano a un archetipo senza tempo che si ricollega con l’attualità ma non solo.
“Different Times” mi ha ricordato molto per le atmosfere che riesce a creare la colonna sonora realizzata dai Mogwai per ‘Les Revenants’. Mi chiedevo se per questo disco in particolare vi siete ispirati ad atmosfere cinematografiche
C’è un pezzo in particolare, ‘Failed to Chart’ che ha il parlato sopra di Glenn Johnson dei Piano Magic che mentre registravamo qualcuno ha detto ‘assomiglia a Les Revenants dei Mogwai’. Devo dire che i Mogwai sono stati e continuano ad essere un gruppo che secondo me all’interno di quello che si chiama post-rock o nuova psichedelia sono di assoluto riferimento per noi perché sono stati capaci di rinnovarsi rimanendo uguali a se stessi. Il concetto di cinematografico bisogna chiarirlo. Con ‘musica cinematografica’ di solito si intende quella che ti fa chiudere gli occhi e vedere qualcosa che non è presente. La musica per il cinema è totalmente diversa, è legata alle scene, a momenti specifici, non è quella musica senza confini che ispira i Giardini di Mirò. In ogni caso noi abbiamo sempre flirtato più o meno consapevolmente con un tipo di musica che ad occhi chiusi ti fa vedere delle cose.
Un’altra domanda sul tempo: qualche mese fa è uscito un libro scritto su di voi da Marco Braggion, che effetto vi fa pensare che esiste un libro su di voi che siete insieme dal ‘98. Come si fa a restare insieme tutti questi anni, per una band è un record
Quando si festeggiano i 50 anni di matrimonio spesso chiedono ‘come si fa’. In realtà le regole che tengono insieme le persone sono simili in qualsiasi attività. Uno dei segreti probabilmente è anche prendersi un po’ di spazio, non far si che il gruppo diventi qualcosa di totalizzante perché in quel caso si rischia di soffocare le diverse voci. I Giardini di Mirò, mi piace sottolinearlo, hanno cambiato nel tempo solo il batterista ed è successo un paio di volte spesso perché sono andati via dall’Italia. Francesco Donadello è andato ad abitare a Berlino e ora chissà dov’è, e Andrea Mancin che l’ha sostituito ora è a New York. Per il resto tutto il nucleo è rimasto uguale. Sono pochi i gruppi che mantengono gli stessi elementi dall’inizio alla fine, questo per me è sinonimo del fatto che all’interno si fa qualcosa di piacevole sennò non sacrifichi il tuo tempo e le tue energie.
Ho visto che farete un lunghissimo tour in Cina, mi chiedevo come mai questa scelta
In realtà ci è stato proposto, è frutto di una serie di coincidenze. Un altro dei temi di “Different Times” oltre all’analisi del concetto di tempo, è quello delle periferie, dalla copertina del disco alla nostra esperienza di vita, il fatto che veniamo dalla provincia della provincia. Abbiamo sempre cercato di far si che questo elemento fosse costitutivo del nostro modo di approcciarci a fare musica e anche a tutto il resto. Per la copertina del disco abbiamo scelto la fotografia di una periferia cinese, non sapevamo ancora del tour, non c’era nessuna relazione, deve uscire anche un video che parla delle periferie del mondo. Probabilmente è una serie di coincidenze, vedremo cosa succederà.
Voi venite da Cavriago dove si trova il famoso busto di Lenin citato anche dagli Offlaga Disco Pax nel pezzo ‘Piccola Pietroburgo’. Si potrebbe pensare che i Giardini di Mirò e gli Offlaga siano le due facce della medaglia di una stessa provincia, quella emiliana, due modi diversi di vedere la periferia, uno più realista e l’altro più onirico? Mi colpisce il fatto che due band nate molto vicine geograficamente abbiano poi fatto cose molto diverse.
Per gli Offlaga Disco Pax l’elemento centrale è sempre stata più la narrazione di un immaginario creato dai testi di Max Collini. Mentre centrale nei Giardini di Mirò è sempre stata l’estetica musicale. Noi abbiamo sempre avuto più un’utopia europeista, come diceva Tondelli in ‘Autobahn’: prendere la Brennero e arrivare in Europa fino ai mari del nord. Noi abbiamo sempre fatto una musica che non aveva come desiderio quello di essere a Sanremo o di passare sulle radio mainstream. Il nostro desiderio era far parte di una scena che all’epoca vedevamo nei concerti al Link o al Covo di Bologna, gruppi che arrivavano da ogni parte del mondo. Stava nascendo un’idea di Europa diversa.