La Cina lo ha accolto venti anni fa e da allora è diventata la sua seconda patria. Giancarlo Maffei è di Montemurlo, ex assessore della Provincia di Prato, da quindici anni, per quattro mesi l’anno, vive a Nanchino, nella Cina orientale. Qui ha aperto la sua attività di promozione del made in Italy specializzandosi nella vendita dei vini italiani. E a dicembre, quando la Cina per prima ha sperimentato la quarantena per l’emergenza Coronavirus, si trovava proprio a Nanchino.
Rientrato in Italia a fine gennaio (quando ancora era possibile) non avrebbe mai creduto che di lì a poco si sarebbe trovato a vivere, per la seconda volta, la paura del contagio: il virus sembrava, a lui come a tutti, una “cosa cinese”, ed è questo l’errore in cui tutti siamo incappati.
Ora, a distanza di quasi due mesi da quando è scattato il lockdown (era il 24 gennaio) la Cina sembra stia vincendo la propria battaglia: i contagi sono diminuiti drasticamente e quelli che ci sono, sono per lo più importati. La Cina oggi è il riferimento mondiale per ipotizzare (o sperare) previsioni su quando la curva dei contagi scenderà anche in Europa. Ma a gennaio, quando i cinesi si apprestavano a celebrare l’arrivo dell’anno del Topo, la situazione era molto diversa.
Quasi nascosti dalle mascherine obbligatorie, i giovani a Shanghai avevano occhi disperati: “In Cina – racconta Giancarlo Maffei – è difficile vedere persone anziane per le strade e ci sono tanti giovani che lavorano nei bar di Shanghai. Ho l’immagine di quegli occhi dietro le mascherine, occhi disperati”.
Giancarlo, quando è tornato si sarebbe mai immaginato che il virus sarebbe arrivato anche in Italia?
“Non credevo che avrebbe avuto in Italia la stessa violenza con cui l’ho visto espandersi in Cina. Credevo anche io che le aree più a rischio sarebbero state quelle a maggiore densità cinese, Prato su tutte, invece non è stato così (Prato tra le province toscane è quella che, al momento, fa registrare il numero più basso di contagi, ndr). Una cosa però che ho sempre detto, anche alla luce delle polemiche che stavano prendendo piede, è che il virus non guarda in faccia a nessuno”.
C’è un’altra immagine che Maffei menziona nel suo racconto e che rende bene l’idea di quella che era Shanghai, già svuotata per le celebrazioni del capodanno e alle prese con le prime avvisaglie dell’epidemia: le strade deserte al punto da poterle attraversare a occhi chiusi, sicuri che nessuna macchina sarebbe sopraggiunta. Un’immagine di grande impatto considerando che la perla d’Oriente, con i suoi 24 milioni di abitanti, è tra le città più popolose al mondo, con elevatissimi volumi di traffico.
“Ogni giorno qualcosa chiudeva, un bar, un locale, un ristorante. In poco tempo le città si sono svuotate”. Sono entrate in vigore le misure di quarantena: l’obbligo di non uscire dal quartiere, di non spostarsi per nessun motivo, stop ai trasporti pubblici. Immediati sono scattati i rigidi controlli per le strade e i tempi per gli acquisti nei negozi ancora aperti (farmacie e generi alimentari) sono stati contingentati: concesso recarsi a fare la spesa ad un solo membro a famiglia, due volte la settimana.
Il presidente Xi Jinping ha adottato misure drastiche, avvalendosi anche della sorveglianza di massa. Misure coraggiose per certi versi, discutibili per altri. Indubbiamente difficili da concepire, e da accettare, fuori della Repubblica Popolare Cinese.
“Lì vige un rigido sistema di imposizione e di rispetto delle regole che è diverso dal nostro – spiega – A noi sono serviti tre decreti, in Cina l’isolamento è stato imposto fin da subito come un obbligo con conseguenze penali. Le fughe da una città all’altra che hanno tenuto banco nei primi giorni della zona rossa in Italia non si sarebbero mai potute verificare. In molti accusano la dittatura cinese, è sicuramente anche per il regime politico che lì non ci sono state reticenze, ma c’è un altro aspetto da tener presente: la Cina ha bisogno di dare un’immagine positiva di sé all’esterno e al mondo”.
Ora però il mondo guarda all’Italia e alla nostra capacità di gestire questa emergenza. Ci viene detto che siamo indietro di un mese (circa) rispetto al quadro cinese.
“Shanghai e la provincia di Nanchino sono state chiuse il 1° febbraio, il 20 dello stesso mese alcune fabbriche hanno avuto l’autorizzazione a riaprire. Le scuole sono ancora chiuse ma alcuni ristoranti hanno tirato su le serrande (vendendo al banco). Anche alcune banche hanno ripreso l’attività. In tre settimane la situazione è cambiata, forse per la fine del mese (marzo, ndr) si potrà tornare ad una quasi normalità ma è difficile fare previsioni”.
Maffei è prudente, la preoccupazione per il futuro è tanta anche se a Nanchino la vita sta piano piano ricominciando.
Ha riaperto anche il suo negozio. Lui è ancora a Montemurlo, lo stanno gestendo i suoi collaboratori con cui è costantemente in contatto. “Dalla Cina i segnali che arrivano per i connazionali sono chiari: non rientrate. I rientri sono fortemente limitati, l’Ambasciata non rilascia visti, anche per questo la ripartenza è lenta. Il virus sta ancora girando e non intendono correre lo stesso rischio di dicembre quando c’erano pochi controlli”.
Per le strade c’è un secondo virus, che a differenza dell’altro, continua a dilagare. È la paura. “I cinesi non se la sentono di andare al ristorante e il consumo interno è basso. Diventerà fondamentale l’impegno del Governo per il futuro del Paese”.
L’obiettivo a breve termine è quella quasi normalità che poi dovremmo sudarci, piano piano, anche noi. Ma intanto lì la vita ha fatto capolino.