Giovanni De Caro, classe ’77, vive a Pisa dove si prende cura dei capolavori architettonici della città. Nella sua vita ha svolto ogni tipo di lavoro da barista ad autista, ha svolto il servizio civile a Volterra e poi ha studiato come educatore facendo il tirocinio nella sezione maschile nel reparto di psichiatria dell’ospedale Santa Chiara di Pisa, un’esperienza che si porterà dentro per sempre. Le sue passioni più grandi oltre al calcio e allo sport in generale sono il cinema e le poesie dei grandi poeti e cantautori italiani. Quando cala la notte e il ritmo della vita si fa più denso spesso apre un quaderno e lascia scorrere le sue parole sulla pagina, una vita ‘parallela’ che lo accompagna ormai da tantissimi anni. “Una scena che non posso dirti” pubblicato da Edizioni Ensemble è il suo esordio ‘cartaceo’ nella poesia. Ecco la nostra intervista.
Ciao Giovanni! Quando comincia il tuo amore per la poesia, quando hai cominciato a scrivere poesie?
Ho cominciato intorno ai 18 anni. Avevo da poco iniziato ad ascoltare i cantautori italiani, e mi si era aperto un mondo. Leggendo i testi delle canzoni, avevo scoperto che la parola scritta ha una forza diversa da quella cantata. Leggere il testo di una canzone o ascoltarla, erano due esperienze molto diverse, ed entrambe belle. Allora non potendo cantare, iniziai a scrivere dei testi. All’inizio non pensavo alla poesia, scrivevo pensando solo alle canzoni. In un certo senso ho iniziato scrivendo canzoni. Forse il mio vero sogno era quello di fare il cantante!
Quali sono i tuoi poeti preferiti?
Beh è sempre molto difficile rispondere a questa domanda. Direi impossibile. Volendo fare un gioco, dico che il mio poeta preferito è quello che dice sempre la verità a sé stesso, ha la sfrontatezza di Bukowski, l’eleganza trasognata di Montale, il cervello di Pasolini, e l’estro di Dylan Thomas.
Vorrei capire come e quando nasce una poesia? Scrivi di notte o di giorno?
Una poesia per me nasce quasi sempre di notte, salvo rari casi. Come non lo so. Le poche nate di giorno nascono da sole, vengono fuori già con le parole, come diceva uno. Mi piace scrivere la sera, prima di dormire. Credo sia il momento migliore. Di solito nasce da una sola frase. Mi viene in mente un inizio, uno spunto o un’idea, e la scrivo. Spesso parto da una frase che ho sentito dire a qualcuno durante il giorno, o che ho semplicemente pensato. Il giorno è pieno di frasi bellissime. Di giorno si memorizza e di notte si scrive, credo funzioni così.
In una delle tue poesie più belle a un certo punto dici ‘sono sicuro di stare nel posto giusto qui in cucina a scrivere’, è come se la scrittura ti ricollocasse nel mondo, ti desse appunto ‘un posto giusto dove stare’. Cos’è per te la scrittura?
L’hai già detto! È un posto giusto dove stare. Non saprei dirlo meglio, e infatti nella poesia lo dico così. Che posto è? Quando scrivi sei nel posto dove tutti possono giudicarti e tu puoi giudicare tutti. In pratica è il massimo della libertà, e per questo mi piace. Poi è anche un modo per non morire del tutto quando poi morirai. Io la intendo più che altro così la scrittura. Tutto quello che uno scrive nella vita credo sia solo un lunghissimo testamento. È quello che lasci. Poi c’è anche chi non vuole farlo il testamento, per carità, però il senso della scrittura per me è questo, è la conseguenza naturale del mio attaccamento alla vita.
Nelle tue poesie ci sono molte donne, o forse sempre la stessa, ma usi per descriverle/la spesso metafore dal regno animale, prima è un levriero, poi un cervo o una volpe. Come mai?
Non ci avevo pensato! Non so, mi piacciono molto gli animali, mi affascinano gli occhi e i movimenti che hanno. Mi chiedo cosa pensano. Magari non mi batto per i loro diritti però li tratto con amore, sempre. Anche con le donne è così, inevitabilmente. C’è sempre questa barriera invisibile di incomprensione, perché sono esseri molto diversi, l’uomo e la donna. Non ci capiamo a vicenda e ognuno a modo suo scappa. Come il cervo, o la volpe.
‘Baby Love’ è una delle mie poesie preferite, in cui si assiste a un capovolgimento del punto di vista dello spettatore. Mi sembra che il periodo dell’infanzia, di quando eri bambino, sia per te particolarmente importante, è così?
È la cosa più importante del mondo, non dimenticare mai il bambino che siamo stati. La più importante di tutte.
‘Una scena che non posso dirti’, è la poesia che da il titolo al tuo libro. È una poesia densa di mistero in cui si capisce che è successo qualcosa di terribile e inevitabile, ma non sappiamo cosa. Puoi dirci qualcosa di più? Oppure lasciamo l’interpretazione aperta ai lettori?
L’ho scritta a quattro mani insieme al mio amico e fratello Luca Torri. C’è stato un periodo in cui vivevamo insieme, con altri amici, e una sera nacque per gioco questa idea di scrivere insieme. Nel libro ce ne sono quattro o cinque scritte con Luca. Quella che hai citato parla di un segreto inconfessabile, ma solo apparentemente. Lascia credere che sia successo qualcosa, magari quando eravamo bambini, ma in realtà è successo soltanto che siamo diventati grandi. E questa è la vera tragedia. Da bambini dovevamo obbedire ai nostri genitori, e non vedevamo l’ora di diventare grandi per essere finalmente liberi. Poi si è liberi ma non cambia granché, anzi le cose peggiorano, perché si continua a obbedire, ma non ai genitori…
Mi sembra che nelle tue poesie si oscilli sempre tra un grande amore e ‘stupore’ per tutto quello che è la vita e allo stesso tempo un dolore, una malinconia di base, un approccio disincantato allo stare al mondo che ne pensi?
Penso sia una analisi esatta. La malinconia viene proprio da questo grande amore per tutto ciò che è la vita. Più ti piace la vita e più sarai triste, perché purtroppo esiste il tempo. E la vita ha un tempo limitato. Però secondo me la malinconia serve, perché ti salva dalla tristezza profonda. È come un vaccino per l’umore, ti fa un po’ male e dura tutta la vita, però ti salva dalla malattia vera.
Per informazioni sul libro:
https://www.edizioniensemble.it
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