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Enogastronomia /FOODCAST, IL PRIMO PODCAST IN TV

Fabio Esposito, pazzo di Napoli ma anche di Firenze. I toscani? Incarnano l’italiano perfetto

L’imprenditore della moda e conduttore televisivo si racconta, dal brand Coconuda che ha regalato il sogno di vestire con gusto a costi accessibili fino al  nuovo programma Foodcast che arriva dopo il successo di “Pazzi di pizza” con Sal Da Vinci e “Pazzi di Napoli”, in coppia con Barbara Foria. E poi i ricordi in Toscana, la terra che l’ha fatto sentire a casa

Quando si accendono le telecamere è un fiume in piena, colorito e trascinatore come la sua Napoli che ti prende per mano e ti conduce in quel caos perfetto che si regge sull’umanità, la creatività e le contaminazioni. Fabio Esposito vive il suo momento d’oro in televisione come una nuova sfida dopo il successo ultraventennale nel mondo della moda con il brand Coconuda, di cui è presidente e CEO. Dunque mai fermarsi quando si raggiunge la vetta della montagna o il porto sicuro.  Perchè è proprio  in quel preciso istante in cui piazzi la bandierina che devi di nuovo incamminarti per traguardare altre cime o per navigare ancora, in una rotta che è fatta di arrivi e di continue, nuove partenze.

A spingere la navigazione di Fabio Esposito non è solo il buon vento, quello che solitamente si augura ai velisti che solcano il mare, ma l’ambizione. E’ lui stesso a definire così l’energia che anima il suo essere. “Voglio sempre dare e fare il meglio studiando, preparandomi. Parlo di un’ambizione sana, intelligente che deve portarti a non deludere te stesso e chi ha creduto in te”.

La nostra chiacchierata inizia così, con l’immagine di chi ha dimostrato di aver chiaro cosa vuole e dove intende arrivare.

Pazzi di pizza – Fabio Esposito e Sal Da Vinci – © FoodNetwork

Partiamo dalla moda. Cosa  pensi di aver dato a questo settore?

Hanno definito Coconuda la griffes dei poveri, un epiteto che mi tengo stretto perchè si può essere poveri di tasca ma non di gusto

Quest’anno Coconuda compie 25 anni e posso affermare che siamo stati gli apripista del fast fashion in Italia . Mi piace dire che nell’epoca degli anni Duemila quando vestire griffato era uno status symbol, noi abbiamo deciso di creare un prodotto Made in Italy a costi accessibili a tutti. Questo ci ha permesso di essere definiti da un’importante testata giornalistica come “la griffes dei poveri”. Un epiteto che mi tengo ben stretto perché si può essere poveri di tasca ma  non di gusto. I miei clienti, con poco, potevano vestirsi bene e italiano. Noi abbiamo mantenuto nel tempo la qualità alta e questo ci ha permesso di far rimanere il marchio in auge dopo così tanti anni.

C’è un termine che dovrebbe guidare tutto il nostro Made in Italy, non solo nell’ambito della moda: il concetto di sartorialità. La sartorialità porta dentro di sè  attenzione al dettaglio,  cura, personalizzazione, esclusività. Dovremmo forse ripartire da qua?

Io vengo da una regione dove la sartorialità è ancora fondamentale. Sarei bugiardo a dirti che questo concetto non si stia perdendo un po’ ma non così tanto come si potrebbe pensare. A Napoli ci sono ancora 5-6 sarti in ogni quartiere, c’è ancora l’abitudine di farsi realizzare i capi cuciti a mano: camicie, pantaloni, giacche. Anche le mie collezioni sono sempre state influenzate da questo concetto. La “donna” che ho disegnato è sempre stata bellissima e femminile anche in tailleur, con un velo di scollatura. Credo che ci sarà un grande ritorno all’artigianalità come credo che non ci sia paragone tra spendere 300 euro per un pantalone griffato o 200 per uno sartoriale. 

Firenze è una delle capitali italiane della moda. Che rapporto hai con la città?

Firenze non l’ho mai lasciata sia dal punto di vista della vita affettiva che della professione. Questo vale anche per altre zone:  i miei primi passi nel fast fashion li ho mossi tutti nella zona del pratese oltre venti anni fa quando le aziende erano ancora governate da grandi imprenditori toscani. Ho iniziato tutto il mio background lavorativo tra il Veneto e la Toscana ed era naturale, finita la giornata lavorativa, passare del tempo nel centro di Firenze, una città che amo  profondamente   e con la quale ho un rapporto splendido, una delle tre più belle d’Italia.

Cosa ti ha conquistato di Firenze al di là dell’arte e della bellezza?

  La Toscana è sempre stata aperta: io a Firenze non ero “il napoletano”, ero Fabio e per me questo è stato importante

Di Firenze mi ha fatto innamorare l’educazione dei toscani. Hanno un grande rispetto del loro territorio, vivono ancora un contatto con la natura che nelle grandi metropoli si è perso e poi  incarnano la figura dell’italiano perfetto. Credo che i toscani abbiano per certi versi la tempra dei napoletani e per questo li sento vicini a me, amano gesticolare come noi, con loro mi sono sentito sempre a casa . Mentre Milano è stata  “rimbalzante” sotto certi punti di vista la Toscana invece è sempre stata aperta: io a Firenze non ero “il napoletano”, ero Fabio e per me questo è stato importante. Purtroppo probabilmente in altre città esiste ancora questo velo di razzismo territoriale.

Ci stiamo scordando il valore dell’umanità?

A Napoli si dice “te voglio bene”: significa che io voglio il tuo bene a prescindere da tutto ed è una cosa che impari solo qua, non altrove

Il mondo sta andando sempre più verso un distacco umano e  l’utilizzo continuo dei telefonini sta portando all’isolamento. In questo scenario la mia Napoli invece rimane inclusiva, affabile, accogliente. La città del calore e della vita. Agli amici che mi chiamano e magari sono giù di morale o depressi dico sempre “vieni a Napoli, hai bisogno di calore, hai bisogno di chi ti apre la porta e ti dice entra, siediti e parliamo”. Sai una cosa? A Napoli più che  ti amo che è una parola mondiale si dice “te voglio bene” e c’è una netta differenza, significa che io voglio il tuo bene a prescindere da tutto. Questo ci fa capire come il  napoletano persegua quello che è lo star bene delle persone che lo circondano ed è una cosa che impari solo qua, non la impari altrove.

Da imprenditore e da uomo cosa pensi dell’intelligenza artificiale?

Non voglio sembrare un eterno romantico ma sono ancora uno di quelli con l’agenda e carta e penna, che scrive i suoi business plan cartacei, sono uno di quelli che la creatività non la lascia di certo all’intelligenza artificiale. Ho sempre creduto che la connessione di cose potesse migliorarmi, sono sempre stato un curioso, un grande assetato di sapere e questo questo mi ha consentito di evolvere anche come imprenditore nel mondo immobiliare e come  autore e conduttore televisivo. Quando il computer o la tecnologia erano uno strumento d’aiuto mi stava bene ma adesso stiamo andando verso un percorso che non mi piace e credo che non ci  aiuterà affatto.

Qualche anno fa hai pubblicato un libro edito da Mondadori “Uno scugnizzo perbene. Da un sogno a Coconuda”. Quanto quell’essere scugnizzo ti ha aiutato a raggiungere i tuoi obiettivi?

Essere scugnizzo è un qualcosa di innato che apprendi nel crescere in una città variopinta e particolare come Napoli. Questa parola veniva usata con un’accezione negativa e io ho voluto smussarla un po’ proprio per esprimere tutta quella vulcanicità che ha uno scugnizzo e che ho ben indirizzato nel mio modus operandi sin da ragazzino, sia nella passione che avevo per il calcio che in quella che ho messo fin da subito nel lavoro. Sicuramente l’essere scugnizzo mi ha dato una mano a realizzare le cose che sono venute poi, grazie anche a quella scaltrezza che ti aiuta ad aggirare il problema, superare l’ostacolo. Ecco, io sono uno di quelli che quando trova un ostacolo davanti lo deve superare, sempre in modo lecito e onesto ovviamente.

Sei uno dei volti di punta di FoodNetwork e da qualche giorno è uscito il tuo nuovo programma, Foodcast. Il cibo è il miglior escamotage per raccontarsi?

Foodcast è il primo podcast in tv, condotto, ideato e scritto da me. Ho intervistato, sotto forma di chiacchierata amichevole, i primi 12 talent della rete di Foodnetwork come Sal da Vinci, Barbara Foria, Luca Terni, Ruben Bondi, Giusina e molti altri. Li ho intervistati per raccontare la loro vita. Alcuni di loro hanno pianto, ti dico questo per spiegarti l’empatia che si è creata. Il format è scandito da momenti ben precisi dal “Sale e pepe” fino al “Sense Memory” che è legato al ricordo. Immancabile poi il  caffè, occasione per confessare un episodio dolce o amaro della vita. Questo è il mio programma da conduttore che è quello che voglio fare adesso, voglio arrivare lontano. Con Foodcast esco allo scoperto.

A chi ti ispiri dei conduttori?

Ho sempre adorato la conduzione di Pippo Baudo, il garbo di Corrado. E poi Piero Chiambretti  che ho avuto l’onore e la fortuna di conoscere o Paolo Bonolis che è un mago. Mi ispiro prevalentemente a loro. In televisione cerco di portare la mia napoletanità, simpatia e ilarità, un modo di raccontare  fluido e comprensibile perché chi sta a casa deve capirti.Nel mondo della moda ho ottenuto tantissimo in vent’anni, in televisione invece ho fatto sei, sette programmi ed è come partire da zero: devo dimostrare più degli altri perché sono napoletano, piccolo e già noto nel mondo della moda dove il mio sogno l’ho scritto. Oggi punto a programmi che mi siano disegnati addosso, che mi incarnino.

Pazzi di Napoli Barbara Foria e Fabio Esposito – © FoodNetwork

Nella moda hai regalato il sogno del vestirsi bene a prezzi accessibili. Oggi in tv l’obiettivo qual è?

In televisione credo che conti sopratutto la credibilità, io non porto sullo schermo il personaggio ma la persona

Per me è importante raccontare. Io ho deciso di fare il conduttore per lo spasmodico bisogno di esternare quello che ho dentro. Dopo cinque edizioni di “Pazzi di Pizza, quattro di “Pazzi di Napoli” , il debutto di “Foodcast” ed a febbraio  quello “Dolci di notte” spero  di aver sempre la possibilità di essere al timone di un programma che possa regalare leggerezza e intrattenimento ma soprattutto che possa raccontare qualcosa alle persone. Credo che conti sopratutto la credibilità. Fabio che vedi sullo schermo è lo stesso che è casa, con gli amici, con i miei figli e mia moglie. Quello che porto in tv non è un personaggio ma la persona, questo conta.

La persona, quella mossa dall’intraprendenza, la sostanza e l’ambizione sana. La persona entusiasta, quella cresciuta in una Napoli brillantemente precaria che tiene ogni giorno a mente, osservando il Vesuvio, come nella vita contino più di tutto “il qui e l’ora”, il tempo da vivere senza rimandare a domani.

Fabio Esposito è quella persona che tiene dentro la filosofia della sua città, la sua cultura millenaria ma anche il suo essere a tratti meravigliosamente estemporanea, contemporanea, come una canzone che nasce improvvisa, una poesia scritta di getto. Non si ferma Napoli, non si è mai fermata di fronte a niente. E’ come un ventre fertile che accoglie mondi, li rigenera, li spinge a scavare nuove strade in quella terra fatta di viscere e di sole, di bianco e nero, di azzurro dirompente. Napoli ti sorprende perché forse è la città più rappresentativa dell’essere umano. L’amore per la vita, il sole, il mare, il culto, l’arte, la musica. Ma anche il cibo che è esso stesso vita, nutrimento, ricordi, emozione.

Esposito con Foodcast ha disegnato alla perfezione lo stile di un format che mette al centro la persona, senza filtri. E’ la vittoria dell’essere contro l’apparire

La stessa emozione che Fabio Esposito porta in tv perché è anche nella leggerezza di un programma televisivo che si possono toccare le corde dell’anima e lui ci è riuscito alla perfezione, disegnando con Foodcast – come ha fatto con le sue migliori collezioni – lo stile di un format che mette al centro proprio la persona, senza fronzoli o scenografie strabilianti, servendo “la vita su un piatto”, senza filtri.

E’ la vittoria schiacciante dell’essere contro l’apparire, della persona invece che del personaggio. E’ la bellezza dell’autenticità che si apre sullo schermo come un sipario a teatro e ti travolge di umanità. Fabio Esposito ci insegna che fare televisione oggi può e deve essere anche questo.

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