“Saracena” è il titolo del nuovo disco di Cesare Basile uno dei più importanti cantautori e musicisti italiani, che da anni porta avanti una ricerca unica e personalissima che unisce punk, blues-folk e musica popolare siciliana.
A un trentennio di distanza dal suo esordio da solista, il suo nuovo e dodicesimo album di studio è un lavoro di ricerca musicale dedicato alla Palestina un territorio che sta attraversando un momento difficilissimo della sua storia.
Dopo gli album Cesare Basile e Tu prenditi l’amore che vuoi e non chiederlo più (entrambi vincitori della Targa Tenco come migliore album in dialetto), U fujutu su nesci chi fa? e Cummeddia, pubblicati tra 2013 e 2019, il linguaggio adottato in Saracena non poteva che essere ancora una volta quello del dialetto siciliano.
Cesare Basile sarà in concerto venerdì 22 novembre al Circolo Arci Il Progresso di Firenze.
Ecco la nostra intervista a Cesare Basile
Ciao Cesare! Il tuo disco è nato in poco più di due settimane come risposta alla necessità di dare un senso a quello che stava accadendo in Palestina
Dare un senso a quella cosa lì è pressochè impossibile, l’unica analisi che possiamo fare è schiettamente e fortemente politica, per cui vedere cosa c’è dietro realmente a quello che sta succedendo in Palestina, un discorso che parte dal 1948. Le cause storiche sono molto importanti, sono cause di ordine mondiale. C’è uno stato sostenuto dal capitalismo internazionale che attua delle politiche di genocidio, da tempo ormai, nei confronti di un altro popolo. Questa è l’analisi politica. Io ho cercato di fare un disco in cui le esigenze poetiche venissero non prima di quelle politiche, ma venissero ‘servite prima’. Non perché non volessi trattare l’argomento in maniera politica, perché alla fine l’ho fatto, ma ho usato uno strumento che mi era più conoscono e mi sono confrontato poeticamente con il dramma dell’esilio declinando con la “spartenza” tipica di tanti popoli del Mediterraneo tra cui la Sicilia che è la terra dove sono nato e cresciuto e che ha vissuto la Spartenza lungo tutto l’arco della sua storia. Ancora prima dei siciliani la spartenza l’hanno vissuta gli arabi in Sicilia. Ho cercato di costruire una sorta di ponte tra le storie di oggi e le storie di ieri, per capire cosa produce la separazione forzata dal luogo in cui si nasce.
Qual è per te il ruolo del musicista oggi?
Il ruolo del musicista è quello che il musicista si sceglie. Può scegliere di fare parte del gioco e non disturbarlo, fare cioè da arredamento. Oppure può provare a prendere delle posizioni o quanto meno a sollevare dei dubbi. Un’arte neutra non esiste, l’arte in qualche modo è sempre o accondiscendente nei confronti dello status quo, o critica. Io sto dalla parte critica.
Il musicista può scegliere di fare parte del gioco e non disturbarlo, fare cioè da arredamento. Oppure può provare a prendere delle posizioni o quanto meno a sollevare dei dubbi. Un’arte neutra non esiste, l’arte in qualche modo è sempre o accondiscendente nei confronti dello status quo, o critica
Il tuo disco si ispira ai versi di un poeta: Mahmoud Darwish, come hai conosciuto questo autore palestinese?
Sono entrato in contatto come spesso avviene con la letteratura casualmente, mentre cercavo di farmi un’idea di quello che succedeva in Palestina. Siccome per mia formazione preferisco sempre capire dai poeti quello che avviene nei loro luoghi. Forse perché i poeti hanno un modo di guardare alla realtà che non è mai scevra di analisi politica. Però in qualche maniera attraverso lo specchio della poesia si possono toccare temi nascosti negli angoli della storia. E gli angoli della storia spesso mi interessano di più. Mahmoud Darwish è sicuramente un poeta che è riuscito a raccontare in maniera molto forte il dramma della Palestina, della Nakba cioè dell’esodo dei Palestinesi. E allo stesso tempo è riuscito a scovare i drammi più piccoli, quelli nascosti, i drammi esistenziali di ogni singolo uomo e di ogni singola donna in Palestina.
Sulla copertina del disco hai messo un ulivo siciliano, anche quello vuole essere un riferimento agli ulivi della Palestina?
Quello è un ulivo saraceno, gli ulivi saraceni si sono diffusi maggiormente in Sicilia, ma l’ulivo è una pianta del Mediterraneo. E questo è un disco che affonda le sue radici e le sue intuizioni nel Mediterraneo che va dalla Sicilia alla Palestina, ma passa anche per il deserto. L’ulivo è una pianta tipica di questo enorme bacino di popoli e culture, ma soprattutto è una pianta in qualche maniera indomita, resiste alle intemperie, tende per sua natura a diventare secolare, a prescindere da ciò che le succede. Quindi mi sembra il simbolo più indicato per rappresentare questa storia.
Passando a parlare del suono di questo album, mi colpisce come abbia una pasta musicale unica, nessuno ha questi suoni in Italia. Mi chiedo come sei riuscito a ottenerli, ho letto che hai fatto tutto da solo unendo strumenti artigianali e elettronica, come ci sei riuscito?
Come hai detto tu: il mio lavoro è basato sull’improvvisazione, nella misura in cui l’improvvisazione è una caratteristica dell’artigiano che è colui che lavora con ciò che ha, se lo costruisce e se lo inventa. Volevo fare questo disco da solo, ho sempre lavorato con altri musicisti, sono sempre stato convinto che fare un disco è come partecipare a una festa. Però per le caratteristiche interiori delle cose che volevo raccontare avevo bisogno di farlo da solo e ho messo in campo un po’ tutto quello che avevo. Da tempo mi diletto nella costruzione di strumenti musicali anche abbastanza atipici. Io non sono un liutaio, costruisco oggetti sonori e ho piegato questi oggetti a volte alla narrazione, altre volte ho piegato la narrazione a quello che era il suono. Ho mischiato tutto con strumenti più tradizionali come la chitarra e tantissime macchinette legate al mondo dell’elettronica. Non mi interessava avere uno schema chiaro, riconoscibile dal punto di vista sonoro, mi interessava di più che le persone sentissero un suono senza capire cos’è, senza trovare un riferimento, forse perché il suono in questo caso ha come riferimento solo se stesso.
Dobbiamo fare in modo che le persone ricominciano a parlare tra di loro, senza aspettare che gli venga raccontata l’ennesima storiellina dall’alto
Tutti questi suoni come saranno realizzati in tour? Chi ti accompagnerà?
Saremo in tre sul palco: Massimo Ferrarotto alle percussioni e all’elettronica, Marco Giambrone chitarra elettrica ed elettronica e io voce ed elettronica. Alcune cose sono state campionate, altre le riproduciamo dal vivo, magari il suono non sarà identico, ma sicuramente avrà quel tipo di spessore e di intuizione.
La canzone che chiude il disco “Cappeddu a mari” racconta una storia particolare, forse c’è anche un’idea di speranza
In effetti è l’unica canzone che non è stata scritta per questo disco, ma si è trova a chiuderlo degnamente. L’ho scritta un bel po’ di mesi prima, è la canzone di un ricongiungimento tra il cappello di un uomo e l’isola che quest’uomo amava. Un cappello strappato dal vento e ributtato in mare. Volevo trovare non dico un lieto fine, perché non c’è almeno al momento, però pensare che le folate di vento a volte cambiano tutto. Stavo cercando della luce in quel finale ma mi rendo conto adesso che forse è la cosa più drammatica del disco.
Gli avvenimenti degli ultimi giorni gettano molti di noi nello sconforto profondo. Forse ora più che mai dobbiamo rispondere con la musica, la cultura e l’amore a quello che accade nel mondo
Io credo che dobbiamo innanzi tutto rispondere all’assenza di una politica per le strade e nelle strade. Credo che non possiamo più permettere che il battito politico di una nazione passi per l’una o l’altra parte, che sono due facce della stessa medaglia, sono i servitori dell’unico padrone che per me resta il capitale. Hanno solo due maniere diverse di servire il capitale e due spocchie diverse. Credo sia molto più importante ricostruire una politica dal basso, tornare per le strade. Nonostante la mia giovane età, ho 60 anni, penso che dobbiamo ridefinire questi anni che ci mettono e ci hanno messo drammaticamente di fronte alla fine di un’epoca che è forse la fine delle democrazie come le abbiamo vissute. Non è che queste democrazie sono state perfette, anzi non lo sono state per niente, spesso sono state al servizio di poteri forti. Noi possiamo ridefinire la democrazia alla luce di quello che è successo e che sta succedendo, si può ridefinirla solo in senso anarchico, ma questa è una mia posizione. Parliamo di partecipazione, c’è bisogno rifondare una partecipazione alla vita sociale, bisogna ripartire dalle scuole, dalle strade, dalle fabbriche, dalle università, dal sottoproletariato. Dobbiamo fare in modo che le persone ricominciano a parlare tra di loro, senza aspettare che gli venga raccontata l’ennesima storiellina dall’alto.