Per la casa editrice toscana Valigie Rosse, nata come progetto parallelo del Premio Piero Ciampi, è uscito il libro “Amaro Succi” esordio letterario del musicista e cantautore Giovanni Succi anima e voce della band Bachi da Pietra.
“Amaro Succi” è un romanzo atipico in cui si racconta magistralmente quella che potremmo definire “l’arte di fallire”. Perché solo sbagliando e sbagliando molto si riesce a imboccare la strada giusta.
Il libro parte dalla storia di un’epopea familiare avvolta nel mistero di un elisir perduto, passando poi a rievocare l’ambiente musicale degli anni Novanta in cui è iniziata la vita artistica di Succi con i Madrigali Magri.
L’autore accompagnato al fantasma di Dante Alighieri racconta le sue disavventure e riflette sulla condizione esistenziale del “musicista di nicchia”.
Il libro è un esordio letterario ma Giovanni Succi ha sulle spalle la scrittura di oltre 20 dischi, passando dai Madrigali Magri ai Bachi Da Pietra con cui ha calcato i più importanti palchi italiani, ma anche dischi da solista, collaborazioni, podcast, letture, serate letterarie.
Ecco la nostra intervista a Giovanni Succi
Ciao Giovanni! Il tuo libro si apre con il racconto del tuo esordio musicale al Palio delle Oche di Cossombrato. Credo che ci sia un Palio delle Oche nella storia di ogni musicista, una serata dove si suona ‘fuori contesto’, quasi un rito di iniziazione, se superi quello puoi suonare ovunque
(Ride) Sì, l’ho proprio usato in quel senso, per stare lontano da qualsiasi forma di “Palio delle oche” perché ce ne sono davvero tanti e a volte “mascherati”. È proprio così come dici, probabilmente un Palio delle Oche c’è nella storia di ogni musicista. Ma nelle nuove generazioni si tende a immaginare che invece l’esordio debba essere subito trionfale, fai un singolo e poi suoni all’Arena di Verona o al Palalido. In realtà non è così neanche oggi, quindi è bene abbassare la soglia del desiderio.
Bisogna riscoprire la famosa “gavetta”
Alcuni immaginano che non esista più perché si é “virtualizzato” tutto, non esistono più gli ostacoli. In realtà esistono ancora e menomale che ci sono, perché ti forgiano. Sono proprio le cose andate storte che ti insegnano come mandarle dritte.
Le cover band sono la “peste” dei nostri tempi: non avere curiosità o la sensazione che quello che accade nel presente è importante. Non è più importante niente, solo quello che è successo prima
Nel libro racconti la storia della tua famiglia che è fatta di guerre, alluvioni e del mitico Amaro Succi, l’azienda però è fallita prima che tu nascessi, ma tu l’hai mai assaggiato?
Io ho collaborato alla ricetta dell’amaro, ci ho messo la storia, il nome, l’idea, gli assaggi. Ci ho messo tanto di me, ma la commercializzazione di quel prodotto non è mia, non mi appartiene più.
L’Amaro Succi questo elisir che “toglie ogni male”, sembra quasi un qualcosa di medievale…
Esattamente, se ci pensi bene il Medioevo ci arriva fino alla porta di casa. A fine Ottocento, in un periodo storico in cui era ancora vivo mio nonno, l’Italia e l’Europa erano ancora piene di questi ciarlatani che giravano proponendo le loro strampalate bevande o formule magiche, medicine raffazzonate che avevano il potere di salvarti da qualunque cosa. È buffo che uno di questi ciarlatani storicamente più famosi e più fortunati si chiamasse proprio Giovanni Succi.
Il racconto della tua telefonata a Paolo Conte per parlargli della tua musica è poesia pura. A te è capitato di trovarti dall’altra parte, cioè ricevere la ‘cassettina’ di un musicista giovane che vedeva in te un punto di riferimento?
Si mi è successo tante volte e ho cercato di fare tesoro della lezione di Paolo Conte, lo stesso atteggiamento che lui ebbe con me, di estrema apertura ma anche di estrema franchezza. Perché solo così si riesce in qualche modo a dare una mano a chi è pronto ad accoglierla. Ci sono anche quelli che si offendono. Mi è successo anche di produrre un gruppo che si è rivolto a me, si chiamano Mür, con loro ho fatto un lavoro di produzione artistica molto accurato. Sono partiti da una proposta musicale e sono arrivati a un risultato molto divertente, secondo me meritano attenzione.
Nella vita di ogni musicista, ma anche semplicemente di ogni appassionato di musica c’è sempre un locale di riferimento. Tu parli molto del Maltese, che mi risulta essere ancora aperto, bene perché sono luoghi che stanno piano, piano scomparendo e invece sono molto importanti
È importante che ci siano. Purtroppo il Maltese sopravvive in una forma che non è più quella avventurosa di un tempo, ormai ci suonano solo cover band. Credo che sia davvero segno dei tempi, è la fine del presente, il rivolgersi completamente al nostalgico, al revival, al passato. Lo trovo veramente una sorta di “peste” dei nostri tempi: non avere curiosità o la sensazione che quello che accade nel presente è importante. Non è più importante niente, solo quello che è successo prima, ma non è così. Se si fosse ragionato così non sarebbe mai nato niente.
Gran parte del libro è dedicata al tuo rapporto con Dante Alighieri, tu ci parli proprio, mi racconti cosa ti affascina così tanto di lui?
Dici poco, mi affascina il fatto che ha bisogno di un paladino Don Chisciottesco come me che ricordi al mondo, o almeno ci provi, che non era una figurina su un piedistallo, o un catechista, o un chierico, o un monumento. Era un uomo medievale con le sue convinzioni, i suoi mezzi, che in condizioni di estrema durezza è riuscito a sfornare il più grande capolavoro della letteratura di tutti i tempi. Lo dicono menti ben più eccelse della mia. Soltanto se te lo presentano male risulta antipatico, perché se te lo presentassero per quello che è vedresti una delle più straordinarie testimonianze di quello che può fare un essere umano nella vita, nonostante tutto. Un “nonostante tutto” che non è il nostro, in cui tutto sommato si cade sempre in piedi, è quello di una persona che vive tra la fine del 1200 e i primi vent’anni del ‘300, in condizioni ben più dure, un mondo ben più crudele, scelte che si pagano più duramente.
Se c’è stato un tempo nella storia in cui nessuno si poneva il problema “sarò di nicchia, non sarò di nicchia?”, oggi il mondo ti affibbia immediatamente il tuo codice a barre, perché deve collocarti in un mercato
Tu ti definisci un “musicista di nicchia” e dici che è una condanna autoinflitta, ma è davvero così? Io credo che sia la musica che ci sceglie, come accade sempre nelle cose importanti della nostra vita
Sì è la musica che ci sceglie, ma siamo noi che scegliamo che musica fare e lo scegliamo in base a quello che siamo. C’è chi elabora un piano di marketing per scrivere canzoni adolescenziali di successo e sbancare le classifiche, ma non è assolutamente il mio caso, io non posso farlo neanche volendo. Perché io non sono in grado di snaturare me stesso, ho un grosso limite, sono condannato a essere quello che sono e quello che faccio rispecchia esattamente quello che sono. Se c’è stato un tempo nella storia in cui nessuno si poneva il problema “sarò di nicchia, non sarò di nicchia?”, oggi il mondo ti affibbia immediatamente il tuo codice a barre, perché deve collocarti in un mercato. Nessuno si è mai chiesto “Che genere fanno i Velvet Underground?”, infatti non vendettero niente, ma sono una delle band più seminali per tutto quello che è venuto dopo.
Oppure pensa ai Beatles. I Beatles hanno sempre dichiarato di fare pop, peccato che nel pop del Beatles in seme c’è tutto, compreso l’heavy metal, l’hard rock, il noise, la world music, la psichedelia, suonavano e basta poi era il mondo ad accogliere o meno la loro musica. Un tempo si accoglieva una proposta musicale per quello che era senza l’ansia della catalogazione, oggi non è più così, quest’ansia è debordante ed è anche castrante. Appena sgarri dal mainstream sei di nicchia, secondo quest’ottica anche il primo Vasco Rossi, era irrimediabilmente di nicchia. Non è un caso che oggi i giovani musicisti suonino tutti nello stesso modo. Se ascolti una playlist di rapper o trapper non li distingui l’uno dall’altro. Hanno tutti lo stesso suono, la stessa voce, gli stessi temi, gli stessi stereotipi, perché questo richiede il mercato e loro si adeguano e al contrario di me faranno i soldi.
Forse è colpa anche di chi produce musica, mentre parlavi mi è tornata in mente la famosa intervista a Frank Zappa in cui diceva che i produttori non capivano niente di musica
Noi rimpiangiamo i tempi in cui i produttori non capivano niente di musica. Non capivano niente ma erano pronti a darti un sacco di soldi per fare un disco e li davano a uno come Frank Zappa. Mica capivano la musica che faceva. Pensa ai primi dischi di Franco Battiato, erano su major, in Italia. Pensa a “Fetus” a “L’era del cinghiale bianco”. Chi produceva musica in quegli anni non capiva un tubo, ma si fidava degli artisti. Oggi in un’epoca in cui 60 milioni di italiani corrispondono a 60 milioni di artisti il risultato è questo.
Il libro si chiude con una dedica a tuo padre il pittore Pio Succi, che una volta ti ha detto una frase terribile, una di quelle frasi che solo i genitori possono pronunciare: “Tutto quello che scriverai te non sarà mai bello come quello che dipingo io”. È davvero andata così? Io penso di no
E chi lo sa, mio padre era un personaggio molto naif, era un vero artista, e come tutti gli artisti non faceva molto caso a quello che seminava intorno a se. Era nato in un contesto estremamente duro, quando mio padre aveva l’età di mio figlio è scoppiata la seconda guerra mondiale. Quello che spero è che mio figlio possa non vivere mai quello che ha vissuto mio padre, tutto il resto lo aggiustiamo. Finché non ci cadono bombe sulla testa va tutto bene. Molti in questo istante non hanno la nostra fortuna.