Era il 16 aprile del 2013 quando la vita di Lucia Annibali, avvocata di Pesaro, cambiò per sempre. Due albanesi, ingaggiati dal suo ex che la perseguitava, le gettarono sul viso dell’acido. Da lì i lunghi ricoveri in ospedale, una ventina di operazioni, tanto dolore, fisico e psicologico, ma poi la forza per rinascere, per tornare alla vita e trasformare quella ferita in un impegno sociale, al fianco delle donne vittime di violenza.
Oggi Lucia Annibali è un simbolo di resilienza e anche di lotta per la parità di genere. Come parlamentare, ruolo che ha ricoperto dal 2018 al 2022, è stata la prima firmataria dell’emendamento che ha introdotto il cosiddetto reddito di libertà, istituto nel 2020 per le donne “in condizione di maggiore vulnerabilità”, per aiutarle attraverso l’indipendenza economica ad affrancarsi dalle situazioni di violenza familiare. Una misura molto importante, che da allora è stata confermata da tutti i governi che si sono succeduti e rinnovata anche per il 2024.
Ma l’impegno civile di Lucia Annibali non è finito con l’esperienza in Parlamento: nel 2023 è stata eletta Difensore civico della Toscana dal Consiglio regionale, un ruolo in cui si impegna “per garantire il buon andamento dei rapporti tra la pubblica amministrazione e i cittadini”, occupandosi “di tributi, di sanità, di accesso agli atti anche in caso di ricorso al TAR, insomma della vita e dei bisogni quotidiani dei cittadini.”
In vista dell’8 marzo le abbiamo chiesto di raccontarci cosa si può fare per promuovere la parità e arginare la violenza di genere, che purtroppo non accenna a diminuire neanche in Toscana.
Dottoressa Annibali, a che punto siamo secondo lei sulla parità tra uomo e donna in Italia?
Lo scorso anno mi colpì la direttiva europea che ancora nel 2023 metteva l’accento sulla necessità di avere strumenti di trasparenza rispetto alla parità di retribuzione tra uomo e donna. Esiste ancora una discriminazione di genere sul piano salariale e già questo ci dà un quadro della situazione e di quanto sia ancora oggi necessario insistere sulla parità, sia percepita che reale.
La questione economica è importante, abbiamo visto in pandemia che la violenza economica è aumentata perché hanno perso il lavoro in maggioranza le donne, poi il lavoro di cura è ancora soprattutto a carico loro: sono tutti elementi che, insieme alla mancata parità di retribuzione, espongono la donna e anche i suoi figli a una debolezza intrinseca, al rischio di povertà ed emarginazione. È proprio l’organizzazione economica e sociale della società che andrebbe cambiata nel profondo.
Che provvedimenti andrebbero presi per fermare la violenza sulle donne?
Ci si concentra spesso sulle norme, su interventi di tipo legislativo e penalistico che possono essere anche importanti ma sono spesso a costo zero. Inasprire le pene non serve alle donne vittime di violenza, perché banalmente si arriva sempre dopo, il processo riguarda l’autore del reato non la sua vittima. Innanzitutto invece servono risorse economiche da investire in interventi trasversali e strutturali. Ad esempio il reddito di libertà è importante perché affrontare la questione economica significa anche affrontare quello che succede alle donne dopo aver denunciato, ma bisogna lavorare anche sulla prevenzione e sull’educazione dei giovani. Alle donne servono gli strumenti per riconoscere di essere in pericolo e strumenti di protezione, che vanno rafforzati specialmente dopo la denuncia. Bisogna intervenire il prima possibile per intercettare comportamenti persecutori o di violazione del divieto di avvicinamento.
È l’organizzazione economica e sociale della società che andrebbe cambiata nel profondo.
A livello mediatico andrebbe cambiato qualcosa anche nel modo in cui si racconta la violenza di genere?
Da diversi anni da parte dei media e delle televisioni c’è un approccio secondo me un po’ morboso e una sovraesposizione mediatica che non dovrebbe essere fatta nei confronti di nessuno. Poi si finisce sempre per giudicare e colpevolizzare la donna, le parole e i concetti che escono sono spesso superficiali, insomma questo racconto, anche se forse chi lo fa non se ne rende conto, è pieno di stereotipi e di pregiudizi.
Anche nel racconto della sua vicenda ci furono stereotipi e pregiudizi?
Tra i tanti momenti in cui mi sono sentita molto offesa rispetto alla mia storia ricordo in particolare questo episodio. Ero ancora in ospedale, al Centro grandi ustionati di Parma, proprio all’inizio del ricovero: ancora non vedevo ma sapevo che la sera avrebbero fatto una trasmissione televisiva, di quelle che ancora oggi esistono, sul mio caso. Non potevo vederla ma l’ho ascoltata e mi sono sentita molto offesa, perché anche in quell’occasione ho sentito parole di giudizio e imprecise: sono passati dieci anni e siamo ancora a questo punto.
C’è troppa superficialità, molti pseduo-esperti in materia che rivelano di essere molto arretrati sul piano culturale e di non conoscere nel profondo le dinamiche che stanno nelle storie di violenza, altrimenti non utilizzerebbero un determinato linguaggio.
Lei è diventata un simbolo della lotta alla violenza sulle donne, cosa le ha dato la forza di prendersi di questo ruolo pubblico?
Sono diversi anni che parlo di questo tema, me ne sono occupata anche sul piano professionale e istituzionale, vado molto nelle scuole a parlare con i ragazzi, con gli adolescenti, e anche in carcere, a condividere la mia storia con i detenuti. È un impegno civile sicuramente faticoso però importante per provare a dare il mio contributo per il progresso nella società.
Forse a darmi la forza è stata la mia capacità di condividere un’esperienza e poi trasformarla in progetti e azioni concrete, forse anche il mio modo di affrontare la vita, che cerco di vivere al meglio possibile, e anche l’idea che questo impegno è un sacrificio ma può essere importante, può anche cambiare le cose per qualcuno: ogni volta posso intercettare qualcuno che ha bisogno e sentire la mia storia può dargli una possibilità nuova rispetto a quello che sta vivendo.