L’Associazione Artemisia di Firenze – che prende il nome della pittrice che fu la prima donna a sostenere un processo per stupro – è stata tra le prime realtà in tutta Italia ad accogliere ed aiutare le donne vittime di violenza e i loro figli. Fondata nel 1991 da un gruppo di pioniere, ispirate dal lavoro sulla violenza di genere già attivo negli Stati Uniti, 33 anni dopo Artemisia gestisce il Centro Antiviolenza di riferimento per tutta la Città Metropolitana di Firenze, due case-rifugio a indirizzo segreto dove sono messe in sicurezza le donne e i bambini che sono fuggiti da situazioni di pericolo di vita, due residenze di semi-autonomia per chi ha imboccato il tortuoso cammino di uscita dagli abusi e un’altra casa per l’autonomia a Lastra a Signa.
In vista della Giornata internazionale della donna Artemisia partecipa all’iniziativa di Viva Vittoria, che l’8 marzo coprirà la piazza centrale di Bagno Ripoli con centinaia di coperte colorate per raccogliere fondi contro la violenza di genere, e il 9 marzo promuove il convegno alla Biblioteca delle Oblate di Firenze dedicato alla psicologa Anna Costanza Baldry con il premio per le migliori tesi di laurea sul maltrattamento e abuso a danno di minorenni.
Abbiamo chiesto alla presidente di Artemisia Elena Baragli di raccontarci come si lavora in prima linea contro la violenza di genere.
Dottoressa Baragli partiamo dai numeri: dal vostro osservatorio negli ultimi anni è cambiato qualcosa?
Dal 1995 ad oggi, in 29 anni di attività, abbiamo accolto oltre 20mila richieste di aiuto, di cui 1.151 solo nel 2023, in aumento dell’11,5% rispetto al 2022. Si tratta di 15mila donne, 4mila minorenni e quasi mille adulti che avevano subìto violenza nell’infanzia e volevano accedere a percorsi di riparazione e cura. Dopo la pandemia abbiamo registrato un aumento delle richieste, è un dato positivo perché significa che possiamo aiutare più persone ma anche che il fenomeno non accenna a diminuire. Le richieste di aiuto che emergono sono la punta dell’iceberg, perché rimane un grandissimo sommerso di persone che non si rivolgono alla rete antiviolenza, ai CAV, ai servizi sociale o alle forze dell’ordine.
Cosa si può fare per scardinare la violenza di genere?
Il tema fondamentale è culturale, è qui che serve un cambiamento. L’abbiamo visto con il caso di Giulia Cecchettin, che ha risvegliato un moto coscienziale che si è ripercosso anche nell’aumento delle richieste di aiuto, non solo a noi ma anche al numero antiviolenza nazionale 1522, a testimonianza che parlare del fenomeno aiuta a sensibilizzare e a prendere coraggio. Poi ci sono quelle che noi chiamiamo falle nel sistema, ovvero tutto quello che non funziona ancora all’interno della rete antiviolenza. In Italia le leggi ci sono ma spesso gli interventi non sono sinergici e coordinati, ad esempio in tribunale la causa penale e quella civile vanno a velocità e parametri diversi, con incongruenze che poi ricadono sulla vita delle donne e anche dei bambini, c’è il problema dell’affidamento dei minorenni, che se non si rileva la violenza può andare va a padri violenti e maltrattanti, con esiti anche fatali che abbiamo visto in alcuni casi di cronaca
Forse anche per questo le donne non sempre denunciano i loro aguzzini, ma denunciare è davvero utile?
Spesso si dice che le donne non denunciano, buttando la responsabilità di non averlo fatto sulle vittime stesse, ma noi capiamo perché non lo fanno. Spesso le denunce vengono archiviate per mancanza di elementi a supporto, altre volte la donna denuncia e intraprende il procedimento penale che però non va di pari passo con quello civile, ovvero la separazione in caso di matrimonio e soprattutto l’affidamento dei figli, se ci sono: questo mette le donne in grandi difficoltà. Poi purtroppo nelle aule dei tribunali accadono anche casi di vittimizzazione secondaria o rivittimizzazzione, come nel caso recente di uno stupro di gruppo a Firenze in cui la prima sentenza aveva assolto i presunti stupratori perché la vittima era ubriaca e quindi non aveva espresso chiaramente il proprio no. Abbiamo un problema di formazione di tutti gli attori delle reti antiviolenza: ad esempio Fabio Roia, presidente del Tribunale di Milano, ha previsto diversi momenti di formazione professionale rivolti anche ai magistrati, che se non sono specializzati e formati a rilevare la violenza possono incorrere in errori legati alla cultura e mentalità patriarcale in cui tutti siamo immersi, uomini e donne.
Mi sembra che ci sia anche un problema di protezione delle donne, come si fa a tenere lontani i maltrattanti o gli stalker?
Il tema della protezione delle vittime è complesso, servirebbero una sinergia e un coordinamento degli interventi molto più stretti di quelli che riusciamo a mettere in atto. Ora c’è anche il braccialetto elettronico che in caso ci sia un provvedimento di allontanamento viene messo all’autore di violenza, mentre alla donna viene dato un dispositivo collegato che suona se si avvicinano, ma anche se suona nell’immediato non cala dal cielo la polizia per aiutarla. Spesso questi divieti di allontanamento vengono violati, i maltrattanti si avvicinano e mettono a repentaglio la sicurezza della donna e dei bambini.
La violenza crea isolamento, è importante chiedere aiuto
Cosa consiglia di fare a una donna in difficoltà o a un suo familiare o amico preoccupato?
Di rivolgersi a un Centro Antiviolenza e chiedere aiuto. È difficile farlo perché la violenza provoca isolamento, il maltrattante infatti agisce per recidere tutti i legami, familiari, amicali e anche lavorativi, le donne che subiscono stalking e maltrattamenti abbandonano anche il lavoro perché sono controllate, ossessionate e seguite e così non hanno nessuno a cui rivolgersi. Ai nostri centrali chiamano anche amici e familiari con cui la persona si è confidata che non sanno come rapportarsi, perché un altro effetto della violenza è il cosiddetto “yo-yo” per cui la persona vuol chiedere aiuto ma poi ci ripensa, anche a causa delle pressioni familiari oppure per paura che gli assistenti sociali possano togliere i figli, che è un pregiudizio non vero. Bisogna stare attente a non credere di poter gestire da sole queste situazioni, spesso le donne non se ne vanno perché pensan “bene o male la gestisco io” ma questo è molto rischioso.
I campanelli d’allarme non si limitano solo alla violenza fisica, vero?
I femminicidi sono sempre l’esito di situazioni di violenza espressa in vari modi, che può iniziare con la svalutazione della persona, con l’isolamento e il controllo. Ti guardo il telefono, ti chiamo ogni dieci minuti perché voglio sapere dove sei, non ti permetto di andare fuori con le amiche o a una cena aziendale: anche questi comportamenti sono predittivi e indicatori di qualcosa che non va bene.
Save The Children quest’anno con lo studio “Le ragazze stanno bene?” ha analizzato il fenomeno della violenza tra adolescenti mettendo in luce anche le complicazioni nate con i nuovi mezzi tecnologici e dei social, ad esempio le immagini delle vittime vengono diffuse nel web o tra gli amici, oppure i ragazzi che chiedono alle ragazze la password dei loro account per vedere con chi chattano, di chi sono amiche e alle ragazze sembra normale, ancora la gelosia è vista come manifestazione d’amore, dobbiamo lavorare anche su questo, perché i modelli maschilisti e patriarcali pesano tanto anche sui giovani, per questo tutte le campagne di informazione e sensibilizzazioni sono importanti così come la pedagogia di genere.