Sabato 20 gennaio al Teatro Cantiere Florida di Firenze Andrea “Andy” Fumagalli, iconico cofondatore dei Bluvertigo, sarà protagonista di un live in omaggio alla poliedrica carriera di David Bowie, da “Station to station” a “Space Oddity, da “Stay” a “Ashes to Ashes” fino a “Heroes ”.
“Andy & The Bowieness” non sarà solo un concerto ma una performance che intreccerà la grande musica dell’artista scomparso nel 2016 e la danza della Lindsay Kemp Company diretta da Daniela Maccari e Ivan Ristallo.
La serata organizzata da Versiliadanza, vuole essere un tributo allo storico live “Ziggy Stardust & The Spiders from Mars”, quando nel 1972 sul palco del Rainbow Theatre di Londra Bowie si esibì proprio accanto al celebre danzatore britannico Lindsay Kemp.
Ecco la nostra intervista a Andy
Ti ricordi i tuoi primi approcci a David Bowie, le prime cose che hai ascoltato?
Il primissimo approccio è stato nel 1980-81 all’uscita di Ashes to Ashes, vidi il video la prima volta su una rete privata, ero un ragazzino e ne rimasi da un lato folgorato, dall’altro anche un po’ inquietato. Questo rapporto tra inquietudine e fascinazione è stata la prima sensazione che ho provato. Sono andato a ritroso, ho seguito il Bowie degli anni ’80 a Berlino e poi le altre scelte e poi sono andato a studiare tutto il meccanismo che l’ha reso noto dai Tin Machine in poi. Ero molto piccolo, a quell’epoca cominciai a comprarmi tutti i dischi, mi sono appassionato a tutto quello che non ho potuto vivere perché sono arrivato in ritardo. Paradossalmente conoscevo meglio il lavoro di Lindsay Kemp, sono sempre stato un suo grande fan e per me è una grande emozione poter collaborare con Daniela Maccari che ha ricevuto da lui il testimone per portare avanti e diffondere il suo lavoro.
Ammiro la curiosità che Bowie aveva verso tutte le cose, ha letto molto e ha fatto tanti esperimenti, è un esempio di sognatore che induce a sognare
Volevo proprio chiederti come hai collaborato con la Lindsay Kemp Company, cosa vedremo sul palco fiorentino?
L’opportunità è stata fornita da una giornalista che si chiama Erica Rocca di Roma, che lavora in Rai e ha fatto un bellissimo documentario che si chiama “Bowienext-Nascita di una galassia” che ci ha messi in contatto nel 2020. Da lì è nata la nostra collaborazione. Tra l’altro non sapevo che avrei potuto lavorare con lui anche prima, ho scoperto che Lindsay ha vissuto a Livorno, è stata per me un’occasione mancata da un lato ma una nuova occasione adesso per portare avanti il discorso.
Ho organizzato questo omaggio a David Bowie, ma ovviamente non è la tribute band in cui mi metto la parrucca rossa per fare Ziggy. Sarà una mia rielaborazione di quello che Bowie è stato in grado di insegnarmi, per me è una sfida emotiva forte. Inoltre grazie a questo spettacolo sto imparando molte cose che nei miei progetti precedenti non avevo avuto modo di sviluppare. Nonostante l’età per me è un modo per ripartire imparando da un mostro sacro, un artista talmente vario, che mi obbliga a una notevole elasticità sonora tra un pezzo e l’altro. Ho studiato il Bowie sassofonista, lui non era certo un tecnico di quello strumento, un virtuoso, ma era molto efficace. È stato un modo per sviluppare il mio polistrumentismo sulla base del suo repertorio, mi sono messo in ballo.
Che cosa ci ha lasciato Bowie?
Oltre la musica secondo me Bowie ci ha lasciato l’esperienza di un paesaggio esistenziale ricchissimo e fatto di spostamenti nel mondo, che gli hanno permesso di creare cose che se non avesse viaggiato da un continente all’altro, non avrebbe avuto modo di sviluppare con così tanto entusiasmo. Ammiro la curiosità che Bowie aveva verso tutte le cose, ha letto molto e ha fatto tanti esperimenti, è un esempio di sognatore che induce a sognare. La grande cosa che lui mi ha permesso è stata quella di poter uscire dalla provincialità della mia città. Ci ha insegnato esteticamente e come intenzione esistenziale a vivere secondo quello che sogni. Bowie ha avuto fasi più euforiche e più depressive, non si è risparmiato nulla, da grandi crisi personali, a esaurimenti nervosi, ha vissuto appieno tante fasi della sua vita. Per esempio la sua scelta di diventare marito e padre che è arrivata tardissimo, lui ha sempre detto che era una delle sue sfide più importanti.
Mi emoziona sempre molto sentirlo parlare nelle interviste, in ogni momento della sua vita, da quando era totalmente fuori a quello in cui era più consapevole, non è stato mai banale. Una persona complessa con la capacità di nascondersi o travestirsi interpretando diverse personalità e alter ego per andare a sperimentare. Molti artisti invece sono abituati una volta consacrati a livello musicale a ripetere sempre le stesse cose e continuare a girare su loro stessi. Un esempio è Bruce Springsteen, che è un grandissimo musicista, verso cui ho un grande rispetto, ma che fa da anni le stesse cose. Bowie è stato in grado di presentare live che erano completamente diversi l’uno dall’altro, nel bene e nel male.
A proposito di live, i concerti di Bowie sono sempre dei ricordi indimenticabili per chi ha avuto la fortuna di vederlo suonare, quali sono stati i tuoi concerti preferiti?
Il più bello di quelli che ho visto a mio parere è stato il tour di Outside negli anni ’90, aveva un’enorme potenza ed era tecnologicamente complicatissimo. Però il più folgorante è stato quando l’ho visto per la prima volta al teatro Smeraldo con i Tin Machine. Successivamente invece ho avuto l’onore di suonare prima di lui con i Bluvertigo a Lucca. Lui ci è passato davanti in camerino velocemente prima di salire sul palco, però ho potuto conoscere i suoi musicisti tra cui il suo storico pianista Mike Garson. Per me è stata una serata indimenticabile, un’emozione incredibile.
La “Bowieness” del titolo cos’è, come la potresti definire?
Una passione, un enorme omaggio e un segno di gratitudine, potrei dire che è uno stato d’animo.