Per la prima volta a Firenze sono esposte insieme le opere di Claudio Parmiggiani e Abel Herrero nella mostra “Viaggio di luce” nella Galleria delle Carrozze di Palazzo Medici Riccardi fino al 21 gennaio 2024.
La mostra curata da Sergio Risaliti e organizzato da MUS.E e Associazione Kontainer riunisce le opere di due artisti di origini distanti ma accomunati dalla reciproca poetica e sensibilità verso il linguaggio pittorico.
A Palazzo Medici Riccardi approda un viaggio iniziato nel 2006, quando Abel Herrero decise di ‘ospitare’ e curare al Museo Nacional de Bellas Artes de La Habana l’installazione Silencio a voz alta di Claudio Parmiggiani, la più grande Delocazione ambientale mai realizzata dall’artista, celebre per le sue opere di cenere e fumo realizzate a partire dal 1970.
Quella collaborazione artistica, coronata a Cuba, si ripropone adesso, a Firenze, in forma più compiuta e in un inedito allestimento dove confluiscono in un unico spazio condiviso le opere dei due artisti.
Nella Galleria delle Carrozze quattro grandi barche scivolano verso una meta distante, irraggiungibile; o forse si allontanano dal punto di partenza, sperando di approdare a una terra sconosciuta, vergine, per dare inizio a una nuova civiltà dell’arte.
Le barche di Parmiggiani trasportano un carico speciale, fatto di polveri di colori diversi, materiali miracolosi, preziosi, quintessenza di una storia gloriosa: pigmenti puri: rosso, giallo, blu e verde.
Colori in viaggio verso la luce, fondamento e origine dello sguardo, dello stupore davanti al miracolo del reale che resiste al nullificante nulla.
“Non ho una concezione nichilista della vita perché non so nemmeno cosa sia la vita. Sento che è un grande dono; il dono di poter osservare il mondo, di poter osservare gli occhi di un mio simile, il miracolo di poter camminare su questa terra”, ha spiegato Claudio Parmiggiani. Alle pareti le grandi tele monocrome di altrettanta purezza cromatica firmate da Abel Herrero. Mari di un verde luminoso e acido, di un giallo accecante e nervoso, di un blu gravido di profondità notturna, di un rosso come il sangue e il nettare dionisiaco, di un nero che mentre nasconde svela l’origine della luce. Grandi superfici agitate, un mare di colore, onde immobili che cavalcano una dopo l’altra, una sull’altra e che ci affrontano come muri saturi di colore. Herrero opera una riappropriazione in chiave contemporanea del classico soggetto della veduta marina, che qui diventa una rappresentazione della condizione umana, “un paesaggio della società massificata e dell’ideologia del produce-consuma-produce… Paesaggio dell’assimilazione passiva, della sopportazione della dottrina dell’alienazione e dell’impossibilità di accedere alla contemplazione in quanto categoria psicologia sempre più negata”, spiega Herrero.
“Ognuna delle opere esposte in questa sede è come un’immersione nella pittura, in un conflitto dell’immaginazione, fino a naufragare nel mare di luce e colore, fino ad annullare lo scorrere del tempo senza però rinnegare l’esperienza della vita, che è movimento, che è esserci nel tempo – spiega il curatore della mostra e direttore del Museo Novecento Sergio Risaliti –. Sono quadri, immagini realizzate per sottrazione, a levare, nello stesso modo con cui si realizzano le Delocazioni di Parmiggiani. Dipinti che nascono da azioni praticate direttamente sulla superficie e a contatto con i colori stesi e poi agiti con le mani e i polpastrelli. Togliendo di mezzo il principio di rappresentazione, l’ostinata ricerca delle mimesi, fino al punto di non ritorno, quando, nell’attimo della dissoluzione della realtà, è la cosa a riapparire, monda di ogni vacuità e superfluità, nella sua sacrale, pregnante e risonante presenza; una presenza come di icona, di un’immanenza assoluta e pertanto inesauribile che non fa differenza tra mondo fisico e mondo metafisico. È la presenza dell’assenza a far luce sul senso della pittura – pigmento per Parmiggiani, monocromi per Herrero – quindi del nostro stesso sguardo, del nostro percepire con gli occhi aperti, immersi nell’epifania di luce e colore. E dietro questa è l’esperienza della morte, l’originale esperienza del nulla che mai abbandona l’artista, il più arrischiato tra gli esseri umani. Ecco perché le barche di Parmiggiani celino nel proprio grembo cumuli di cenere, l’ombra del colore che rinasce ora dalla consunzione della luce, poi l’esperienza del nero, colore del tragico della vita, estrema estenuazione della luce e dello sguardo. L’incommensurabile desiderio di infinitezza ed eternità, sembra voler tenere uniti i pensieri dei due artisti che, pur ancorati all’immanenza, guardano alla trascendenza quale valore e meta suprema dell’arte. Per Herrero e Parmiggiani non c’è altra via, altro esercizio, che l’esperienza della contemplazione, senza la quale non c’è possibilità di fare luce, di approdare alla verità del reale; un ultimo tentativo per arrivare all’invisibile e all’illimitato prima che tutto scompaia. Procedere verso il nulla, verso l’oscurità e il vuoto, solo per fare luce al linguaggio, per accedere alla verità poetica della cosa, per aprire un varco verso la Lichtung. Parmiggiani e Herrero considerano all’unisono l’immersione contemplativa nella pittura come esperienza diametralmente opposta a ogni forma di comunicazione, come forma di resistenza alla dissipazione del linguaggio nel chiacchiericcio di cui parla Heidegger.”
Con le sue installazioni, Parmiggiani si spinge fino alla scomparsa dell’oggetto, penetrando nel mondo immateriale dell’idea, ai confini dell’assoluto e dell’irraggiungibile, affidando però alle cose l’incarnazione del divino nel reale.
Un paio di scarpe logore, una campana, un cumulo di libri, il caldo di una statua, una vecchia lampada ad olio, barche e pigmenti.
In modo affine, Herrero accetta la sfida dell’astrazione senza rinunciare alla pittura, alla struttura riconoscibile della visione naturalistica, unica via possibile al pittore per immaginare l’infinito e l’illimitato, quando tutto si è ridotto a portata di mano e ogni forma di vita si è digitalmente consumata.
Come in Parmiggiani anche in Herrero resiste la meraviglia per il miracolo dello sguardo, che è poi quella del riconoscimento contemplativo del reale. Quel vertiginoso spalancarsi del divino e dell’infinito tanto nella cosa che nell’opera d’arte.