Sua madre lo chiamava “il ragazzo delle passioni”, quell’amore verso la musica e il rap che l’hanno guidato verso il successo. Sono state quelle stesse passioni a diventare il bagaglio prezioso di una delle personalità più eclettiche del mondo dello spettacolo. Il produttore e manager dei più grandi artisti italiani Marco De Antoniis è uno di quelli che non sale sul palco a prendere gli applausi ma molto del merito della riuscita di una performance dipende proprio dal suo lavoro.
Oggi la sua vita, densa di storie e aneddoti, sta tutta dentro il libro “Volevo fare solo il rapper (ma a trenta anni ho capito di essere un astronauta)”. Un titolo che già ci dice molto di De Antoniis, che raggiungo al telefono di prima mattina.
Marco, hai una personalità eclettica: producer, agente, organizzatore di spettacoli, produttore, autore e adesso anche scrittore, fare il “rapper” forse ti sarebbe stato un po’ stretto?
Direi di sì. Ognuno di noi da ragazzo ha dei sogni che poi si trasformano. Magari non è quello che volevi inizialmente ma alla fine ciò che realizzi è anche meglio di quello che avevi pensato.
Con questo libro cosa vuoi raccontare al tuo pubblico?
Volevo lanciare un messaggio, quello di non arrendersi mai
Spesso gli amici mi hanno consigliato di scrivere un libro con gli aneddoti e una mattina della scorsa estate ho iniziato a buttare giù delle idee. L’ho scritto di getto in 15,20 giorni, è stato un fiume irrefrenabile. Questa biografia è stata anche una scusa per lanciare un messaggio: quello di non arrendersi mai.
Quando è iniziato il tuo percorso nel mondo dello spettacolo e quando hai capito che sarebbe diventato la tua vita?
I produttori mi hanno sempre risposto: il rap non ci interessa, non andrà mai in Italia
La musica ad un certo punto ho iniziato a sentirla dentro. Così è stato anche con il rap che trent’anni fa non conosceva nessuno. Io mi innamorai del rap americano, di quella corrente che veniva da New York. Così mi misi a scrivere dei testi in italiano con le basi del rap americano e iniziai a girare con le musicassette dai produttori e dai discografici, proponendo le mie canzoni. Mi hanno sempre risposto nella stessa maniera: “A noi il rap non interessa, questo genere non andrà mai in Italia”. Poi molti anni dopo sono usciti gli Articolo 31, forse ero arrivato troppo presto.
Non hai mai mollato di fronte alle difficoltà pur di raggiungere i tuoi obiettivi. Cosa ti ha aiutato a superarle?
A 18 anni partii per l’America facendo l’interprete per il tour di Modugno. Non sapevo una parola d’inglese ma ho saputo osare
Sono entrato nel mondo dello spettacolo dalla porta di servizio, ho fatto tanti concorsi, uno anche con Rita Pavone e Teddy Reno. Quando mi sentirono cantare il rap per la prima volta rimasero a bocca aperta, non ci credevano, gli piacque molto. Poi ad un certo punto un produttore, convinto che parlassi molto bene l’inglese, mi propose di andare a fare da interprete per il tour all’estero di Domenico Modugno. Io in realtà non sapevo una parola d’inglese ma pur di vedere gli Stati Uniti ed entrare in contatto con il mondo del rap mi spacciai come madrelingua, così a 18 anni partii per l’America. Ho saputo osare.
Hai lavorato in Italia e all’estero, con grandissimi artisti. Della Toscana che ricordi hai?
La Toscana l’ho girata in lungo e in largo, la amo. Firenze è una città indescrivibile, bellissima. E poi la Versilia, Arezzo, Pisa. E’ una regione d’arte. Ho fatto spettacoli un po’ dappertutto. Verremo a Firenze anche con Massimo Ranieri, il concerto doveva tenersi il 30 maggio ma è stato spostato al 6 giugno perché Massimo ha avuto un piccolo problema di abbassamento di voce ma tra una settimana saremo lì.
Da giovanissimo hai lavorato anche con Toto Cutugno…
Mi colpì la sua umanità
E’ un gran signore. Ero un ragazzino e facemmo tre spettacoli bellissimi allo Sporting Club di Montecarlo. Mi colpì tantissimo la sua umanità, una persona stupenda. Il suo concerto mi conquistò. Devi sapere che a distanza di vent’anni da quello spettacolo ci siamo incontrati di nuovo e lui mi ha riconosciuto dopo tutto quel tempo e mi ha abbracciato. E’ un grande artista e un grande uomo.
A proposito di grandi artisti, ormai con Massimo Ranieri c’è un sodalizio inossidabile. Cosa ti hanno insegnato tanti anni di lavoro insieme?
Prima di Ranieri ho collaborato anche con Modugno, Arbore, Dalla, Morandi, Baglioni. Con Massimo lavoro da 15 anni, abbiamo realizzato 1300 spettacoli live, un record assoluto. Siamo molto simili, entrambi molto determinati. E’ un artista di grande passione, attentissimo ai dettagli. Ecco questo ho imparato da lui, a mettere la passione davanti a tutto.
Sognavi di fare il rapper. Oggi chi sei e cosa sogni?
La pensione. Ho iniziato a girare in tour nel 1989 e non mi sono mai fermato. Sogno un mese di tranquillità (ride, n.d.r).
Il titolo del tuo libro ci racconta molto di te: “Volevo fare solo il rapper, ma a trenta anni ho capito di essere un astronauta”. Cosa vuol dire sentirsi un astronauta?
Sono il Collins della musica italiana
Io sono nato nel 1969, l’anno dello sbarco dell’uomo sulla Luna e gli astronauti erano dei veri e propri eroi. Avevo il poster in cameretta di Armstrong, Collins e Aldrin e nel mio libro ho voluto creare una metafora prendendo come spunto la loro storia. Soltanto due di loro, Armstrong e Aldrin, sono scesi sulla luna mentre Collins è rimasto in orbita. Ma è stato proprio grazie a Collins che tutti sono potuti tornare prima sull’astronave e poi sulla Terra, quindi mi sono paragonato a lui, che non è atterrato sulla Luna ma ha contribuito alla missione. Io in realtà volevo fare il rapper e stare sul palcoscenico ma alla fine ho fatto la mia fortuna lavorando nel backstage e quando l’artista ha successo è anche merito mio, in fondo sono il “Collins della musica italiana”.