Primavera 2023, tre anni dopo il lockdown, la pandemia spazzata sotto il tappeto e le prime avvisaglie di un anno eccezionale per il turismo mondiale. Già, “eccezionale”, dipende da che punto di vista…
I primi numeri di Pasqua, ad esempio, riportano picchi da tutto esaurito praticamente in tutte le destinazioni classiche del periodo. Prese d’assalto le città d’arte ovviamente, tutte, nessuna esclusa, e le destinazioni iconiche, le Cinque Terre, la Costiera, i laghi, e così via. Come d’altra parte era perfettamente prevedibile.
I numeri mondiali evidenziano una crescita rilevante pure relativamente al 2019, annata d’oro del turismo. E dell’overtourism.
L’abbondanza si può gestire, la miseria no
Infatti, contemporaneamente ai comunicati da “tutto esaurito” delle associazioni di categoria fioccano in questi giorni decine di articoli contro il redivivo “overtourism”. Parola che speravamo fosse defunta definitivamente nel 2020 e che è invece viva più che mai. “Era meglio quando c’era l’overtourism, altroché!”, mi ricordo perfettamente tante dichiarazioni così nel 2020 e anche nel 2021. Perché ovviamente l’abbondanza si può sempre gestire, magari lamentandosene un po’ di maniera, la miseria no, come ha sempre scritto Robi Veltroni in questo blog.
Il termine Overtourism è relativamente recente, nasce nel 2016, da un articolo di Skift, ed è diventato immediatamente virale e utilizzato in tutto il mondo. In un recente articolo però, pure Rafat Ali, il direttore di Skift, ha dichiarato che è giunto il momento di abbandonarlo. Sono perfettamente d’accordo con lui. Ho sempre pensato che questo neologismo abbia dei bias impliciti, negativi e a senso unico.
Intendiamoci, il sottoscritto ha precisato più volte, e ribadito in moltissime occasioni, che il turismo veramente sostenibile è quello che riesce a conciliare la qualità della vita dei cittadini “residenti”, con la qualità dell’esperienza dei cittadini “temporanei”, cioè i turisti. Con la consapevolezza però di quanto questo sia un processo asintotico e utopistico. È bene aspirarvi, progettando il territorio e l’offerta in questa direzione, è male renderlo dogma perché incompatibile con la necessaria e sacrosanta libertà di mercato.
The elephant in the room è però la sostenibilità economica, perché senza questo aspetto tutto il resto scompare immediatamente. Senza la sostenibilità economica non c’è offerta e senza offerta non c’è domanda. Perdonate la banalizzazione, ma anche quando si parla di “turismo responsabile”, “sostenibile”, “turismo culturale” ecc. ci sarà sempre qualcuno che spende e qualcuno che incassa e auspicabilmente guadagna. Senza questo margine economico positivo non c’è turismo. Per questo sono così importanti le politiche a supporto delle imprese in modo che possano magari investire parte del margine per migliorare l’offerta e i servizi, migliorare per tutti, sia per i cittadini temporanei che per quelli residenti.
Non esiste l’overtourism, esistono solo destinazioni gestite con approssimazione. Per questo trovo un po’ naïf il termine “overtourism”, perché considera solo una parte del problema, che esiste e va gestito e perché, come vedremo più avanti, è più uno slogan polarizzante di un fenomeno sistemico.
Non esiste l’overtourism, esistono solo destinazioni gestite con approssimazione
Lo ripeto: non esiste l’overtourism, esistono solo destinazioni gestite con approssimazione. Esistono destinazioni che fanno solo promozione e poi si stupiscono che molti vogliano andarci in vacanza magari a Pasquetta. Esistono destinazioni che parlano di “destagionalizzazione” (altro termine mitico), senza però coinvolgere gli operatori e le aziende che “fanno” il turismo. È un po’ difficile destagionalizzare (chi dovrebbe farlo poi?) quando la maggioranza dei negozi, gli hotel e i ristoranti sono aperti al massimo 4 o 5 mesi all’anno.
Esistono destinazioni che vivono di rendita reputazionale, perché una volta nella vita bisogna andare a Venezia, o Firenze, o Roma, o alle Cinque Terre. Dove la facilità di attrarre turisti (che di fatto vengono anche senza promozione), deprime ogni spinta innovativa delle aziende che “comunque siamo pieni”, senza capire che potrebbero differenziare l’offerta, alzare la qualità, lavorare sull’esperienza, e alla fine guadagnare molto, molto di più, con meno sforzi.
Anche in un recente paper accademico si mette discussione l’uso del termine “overtourism” sostenendo che si dovrebbe smettere di utilizzarlo a causa delle metafore negative utilizzate, che possono influenzare l’opinione pubblica, i policy-maker e le istituzioni. I giornalisti utilizzano spesso metafore basate su immagini di guerra, invasioni, inondazione e alluvioni, per descrivere l’overtourism come una minaccia globale, un pericolo e un rischio. Questa narrazione porta a percezioni divisive, che inevitabilmente rappresentano i turisti e i residenti come avversari.
Le metafore creano una percezione negativa dei turisti e giustificano il loro controllo attraverso misure come quote e “numero chiuso”. L’autore sostiene che il termine “overtourism” abbia un carattere empirico debole e funzioni più come uno slogan che come un concetto scientifico. Invece di concentrarsi solo sui turisti, l’articolo suggerisce di discutere approcci globali alla gestione del turismo, come la Carbon Tax, i controlli degli affitti brevi e i salari minimi, per orientare davvero la società e la destinazione verso la sostenibilità e l’equilibrio menzionato sopra.
Non diventiamo una Disneyland!
Il problema delle nostre città non è di non diventare come Disneyland, ma di non esserlo abbastanza
Altro concetto, legato a doppio filo all’overtourism, e ormai diventato inspiegabilmente comune è quello della disneyficazione. “Non rendiamo i nostri territori una Disneyland”. Senza riflettere un attimo come questo parallelo sia completamente senza senso. Il problema delle nostre città non è di non diventare come Disneyland, ma di non esserlo abbastanza.
I parchi Disney vengono visitati ogni anno centinaia di milioni di visitatori, tutto funziona perfettamente, si prenota la visita, se si vuole un’esperienza più esclusiva, o si vogliono saltare le code, si paga molto di più. Vengono messe in atto tecniche specifiche nella gestione dei flussi e nell’uso della tecnologia e dei dati per rendere l’esperienza dei visitatori migliore.
Uno studio del 2019 rivela che l’impatto economico di Disneyland in California era aumentato del 50% dal 2013. Il parco a tema ha avuto un impatto di 8,5 miliardi di dollari sulla regione e ha creato oltre 78.000 posti di lavoro solo in quell’anno. I visitatori hanno speso 2,5 miliardi di dollari nelle attività locali al di fuori del parco. Il tasso di crescita occupazionale medio di Disneyland è stato del 7,2% annuo dal 2013, superando il tasso di crescita occupazionale regionale del 2,3%. I lavoratori, gli ospiti e le attività commerciali del parco hanno generato circa 510 milioni di dollari in tasse statali e locali ogni anno.
È vero, non sono AUTENTICI. E anche sul tema dell’autenticità potremmo parlarne a lungo, perché a volte è molto meglio (per i turisti) una identità rappresentata, raccontata, ma che funziona dal punto di vista organizzativo, che la realtà. Su questo tema dell’identità e autenticità del territorio, usate come alibi per non fare nulla, perché “abbiamo tutto” e ai turisti “piace avere un’esperienza autentica” tornerò a parlarvene magari con un altro post dedicato. Perché ovviamente non è così e soprattutto non è sempre semplicemente bianco o nero: è tutto una meravigliosa scala di grigi: è vero che i turisti dicono di cercare esperienze autentiche, ma è vero anche che la maggior parte di loro preferisce l’organizzazione e saranno i primi a lamentarsi di un viaggio non gestito e non organizzato bene. Basta leggere qualche recensione.
Overtourism e disneyficazione, termine che vanno derubricati e archiviati
Concluderei con l’auspicio che sia il termine “overtourism”, sia il termine “disneyficazione” vengano derubricati e archiviati nel dibattito pubblico sul turismo e sulle destinazioni. Se davvero vogliamo creare una destinazione sostenibile e inclusiva, che difenda la qualità della vita dei cittadini, garantisca la qualità dell’esperienza ai visitatori e allo stesso tempo garantisca la sostenibilità economica alle imprese e alle istituzioni, è necessario un approccio più olistico e meno divisivo. Nelle mie presentazioni uso sempre una slide dal titolo “Everything is Tourism”, perché il turismo non è solo l’hotel, non è il ristorante, non è il museo o il tour, ma tutto questo combinato con tanti altri piccoli frammenti di esperienza del territorio.
Esistono già esperimenti incoraggianti, come la cosiddetta co-creazione, cioè un approccio che coinvolge attivamente i viaggiatori e le comunità locali nel processo di creazione di esperienze turistiche uniche e autentiche per definizione. Questo concetto si basa sull’idea che il valore di un’esperienza turistica non sia determinato solo dalle attrazioni e dai servizi offerti, ma anche dalla partecipazione attiva e dal coinvolgimento di tutte le parti interessate. Attraverso un approccio di co-creazione, i viaggiatori possono interagire direttamente con la cultura, la storia e la natura del luogo visitato, mentre le comunità locali hanno l’opportunità di condividere le loro conoscenze, le tradizioni e le abilità, arricchendo l’esperienza di entrambi. Inoltre, la co-creazione turistica promuove naturalmente la sostenibilità, poiché incoraggia un maggiore rispetto e una migliore comprensione delle risorse locali e delle esigenze delle comunità ospitanti.