Il 10 marzo 1302 mentre Dante Alighieri si trovava a Roma dal Papa il Podestà di Firenze Cante Gabrielli da Gubbio con due sentenze lo giudicò colpevole di baratteria l’equivalente di corruzione e di appropriazione indebita di denaro pubblico, impedendogli per sempre di tornare nella sua città natale. Inoltre nel 1325 un’ulteriore sentenza lo condannò alla pena capitale cioè a morte.
Firenze cacciò dunque per sempre il suo intellettuale più illustre e lo costrinse all’esilio, un esilio che lo portò a morire a Ravenna il 13 settembre 1321. Fu un evento che segnò in maniera indelebile la vita del sommo poeta e che ebbe il suo riflesso anche nella Divina Commedia da lui scritta tutta proprio durante l’esilio.
Dante cercò per tutta la vita di tornare a Firenze senza però mai riuscirci, nella sua opera più importante descrisse così il suo eterno peregrinare da una città all’altra “Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale”.
A distanza di sette secoli, in occasione del settecentenario dalla morte del Sommo Poeta l’avvocato Alessandro Traversi penalista nel Foro di Firenze il 21 maggio 2021 ha rimesso “in scena” a Firenze il processo a Dante Alighieri.
Vi riproponiamo la nostra intervista.
Avvocato Traversi qual era la situazione politica all’epoca in cui visse Dante Alighieri?
A Firenze nel 1300 c’erano due partiti contrapposti i Guelfi e i Ghibellini. Firenze però è una città che è sempre stata caratterizzata da vicende molto animate, controverse di carattere politico, a sua volta i Guelfi erano divisi in due parti contrapposte: i Guelfi bianchi e i Guelfi neri. I Guelfi neri parteggiavano per il papa Bonifacio VIII, il papa cioè attraverso il partito Guelfo nero cercava di indirizzare le decisioni politiche nell’ambito fiorentino pur essendo Firenze al di fuori dello Stato Pontificio. Invece i Guelfi bianchi a cui apparteneva Dante erano contrari a che il papato potesse condizionare la politica fiorentina. Dante non è come lo ha poi definito Foscolo nei Sepolcri il “ghibellin fuggiasco”. Lo ha chiamato così perchè quando Dante era in esilio si avvicinò ad altri fuoriusciti ghibellini nel tentativo di tornare in patria, però lui ghibellino non è mai stato. Era un guelfo bianco e siccome all’epoca dominava a Firenze la parte dei guelfi neri e lui era stato priore nel governo fiorentino negli anni precedenti, gli fu intentato un processo nel quale gli venivano addebitate varie ipotesi di reato.
Fu addirittura accusato di baratteria ed estorsione
Esatto la “baratteria” oggi sarebbe l’equivalente di corruzione, un reato del pubblico ufficiale che oggi si chiamerebbe traffico illecito di influenze. In più gli contestavano anche appropriazioni indebite di denari pubblici. Corruzione, baratteria, estorsione sono tutta una serie di reati che oggi chiameremo comuni. Accanto a questi gli si contestavano anche una serie di reati squisitamente politici cioè di aver avvantaggiato la parte bianca in danno dei neri abusando della sua funzione istituzionale. Dante dunque era citato a comparire davanti al Podestà ma capì l’antifona, capì cioè che non tirava aria favorevole e visto che si trovava a Roma come ambasciatore presso il papa decise di non tornare a Firenze. Anche se era stato ben informato di questa citazione a comparire.
Come riuscirono a condannarlo?
Per gli statuti fiorentini dell’epoca, cioè la legge penale e processuale del tempo (noi ne abbiamo una copia in latino) era stabilito che l’imputato dovesse essere notiziato (informato) in tutti i modi possibili dell’esistenza del processo e dell’invito a comparire tramite banditori pubblici. Se però l’imputato nonostante fosse stato avvisato in tutti i modi possibili non fosse comparso al processo, vigeva una regola ferrea: l’imputato ‘contumace’ era equiparato a un imputato reo confesso, cioè era come se avesse ammesso tutte le sue responsabilità. Quindi il giudice ebbe buon gioco ad emettere la prima sentenza di condanna che fu il pagamento di una somma di fiorini, una somma all’epoca notevole che doveva essere pagata in un termine ridottissimo di tre giorni. Se l’imputato non provvedeva al pagamento della somma di 5 mila fiorini, che oggi potrebbero essere equiparati a 50 mila euro, il giudice a suo arbitrio poteva commutare la pena pecuniaria in una pena di carattere personale. Quindi con una successiva sentenza sempre del 1302 il giudice commutò la pena nel famoso esilio. Addirittura negli anni successivi ci fu un’altra sentenza in contumacia in cui Dante fu condannato alla pena capitale (a morte).
Dante dunque non tornò mai a Firenze
Esatto ha trascorso l’esilio in vari luoghi, ad Arezzo, in Lunigiana, a Bologna, Forlì, Verona e poi infine a Ravenna dove è morto. Nella Divina Commedia parla più volte del dolore di non poter tornare in patria. In realtà gli fu proposto di tornare a Firenze con una specie di amnistia condizionata all’oblazione, cioè doveva pagare una somma, stare formalmente in carcere per un po’ di tempo e fare una processione in cui doveva comparire come penitente. Ma Dante decise di non sottostare a questa umiliazione e non tornò mai a Firenze.