La pandemia ha scardinato le nostre certezze, ha fatto crescere angoscia e solitudine: ne stiamo uscendo ammaccati e cambiati, è innegabile. Eppure c’è qualcosa che brucia sotto le ceneri di questo disastro umano, qualcosa che divide la nostra vita di prima con il dopo, che necessariamente dovrà essere migliore. “Abbiamo capito finalmente che il fine ultimo è solo la qualità della vita. È una vera rivoluzione culturale e la Toscana può essere in prima linea”. E non c’è nessun eccesso di campanilismo in questo, ma una spiegazione abbastanza semplice: “La qualità della vita è stata inventata qui, secoli e secoli fa, e possiamo ancora una volta indicare la strada al mondo. Perché non creare qui, adesso, la Silicon Valley d’Europa?”. A parlare è il professore Stefano Bartolini, docente di Economia Politica all’Università di Siena e uno dei massimi esperti di Economia della felicità, la scienza che studia cosa ci rende felici e cosa no. “Siamo in grado di indagare finalmente la cosa più importante di tutti: la qualità delle relazioni”. E soprattutto studiare l’infelicità diffusa nelle società industriali, tutta descritta nel famoso paradosso: più la ricchezza aumenta, più le relazioni umane peggiorano.
Professore, la pandemia cosa ci ha rivelato?
C’è finalmente stata la comprensione di massa di quello che realmente ci rende felici. Dopo il primo lockdown che ci ha tolto tutto, in testa alla gente è rimasto solo l’isolamento. Non ci mancava comprare, ma vedere le persone care, le relazioni. È aumentata anche la percezione dell’importanza dell’ambiente, del fatto che non viviamo in un mondo artificiale e controllabile e che se non trattiamo bene la natura, lei ci tratta male. Abbiamo capito che la qualità della vita, dell’ambiente e dei rapporti umani è la strada.
Perché la Toscana, con tutti i poli di eccellenza che ha, non dovrebbe diventare la California d’Europa?
Ma come si percorre questa strada?
Gli strumenti li abbiamo già, ma non ne abbiamo consapevolezza e non sfruttiamo le nostre potenzialità. In Toscana, ad esempio, lo sappiamo bene per tradizione culturale che ci vuole attenzione alla qualità della vita, all’ambiente, alla cooperazione. Abbiamo già un modello su questo, il punto è se lo sapremo valorizzare e mettere in pratica adesso. Non sarebbe la prima volta nella storia che indichiamo la strada al mondo… Ma viviamo troppo sugli allori. Abbiamo inventato noi la qualità della vita, ne siamo il simbolo mondiale. Ma siamo famosi per quello che abbiamo fatto secoli fa, diventiamolo invece per essere riusciti a rivitalizzare e innovare quella tradizione.
E come si fa?
Prendiamo la Silicon Valley in California. E’ nata dalla combinazione di due fattori: in quegli anni la California era la meta di tutti i creativa d’America e l’università di Stanford creò un incubatore tecnologico. L’opportunità creata dall’università più la presenza dei creativi fece diventare quel paese il polo dell’innovazione mondiale. E allora mi domando: perché la Toscana, con tutti i poli tecnologici e di formazione che ha, non dovrebbe diventare la California d’Europa? Siamo il posto più bello, diventiamolo anche con l’innovazione, creiamo istituzioni pubbliche che attraggano i migliori cervelli d’Europa. Il vantaggio che abbiamo rispetto al resto del mondo è che le persone in Toscana ci vengono volentieri, perché qui si vive bene: basta dargli opportunità di lavoro e rafforzare quegli aspetti che migliorano la qualità della vita. Tra 20 anni avremmo qualcosa di simile alla Silicon valley.
Per adesso si vede tanta rabbia e stanchezza in giro, non c’è ancora la percezione di un cambiamento positivo.
Ora la gente è disperata, soprattutto economicamente, e sono decollate le malattie mentali. Ma quando torneremo alla vita di prima capiremo che non era quella la normalità, ma era il problema. Anche le disuguaglianze, che sono inevitabilmente aumentate, non verranno più tollerante come prima della pandemia, ma saranno combattute con più forza
La pandemia si rivelerà, tra qualche tempo, una sorta di tasto “reset”?
Sono in atto cambiamenti culturali importanti. Veniamo da 40 anni dominati dalla convinzione che l’azione collettiva non conti, vale solo individualismo e la competizione, che solo i mercati e il privato creano ricchezza e prosperità. È il pensiero neoliberista che dagli anni ’80 in poi è stato predominante. Poi è arrivato il Covid che è chiaramente un problema collettivo: se io non sono sano, non lo sei nemmeno tu. E può essere risolto solo cooperando, se tutti rispettano le regole. Prima della pandemia anche il cambiamento climatico ha imposto una coscienza collettiva del problema, chiedendoci un modo diverso di mangiare, di viaggiare e di riscaldarci. Possiamo dire con tranquillità che oggi stiamo assistendo alla fine dell’era neoliberista.
Quali sono, secondo lei, le priorità che dovrebbero avere i governi nel piano di ricostruzione?
Credo sia necessaria in tutta Italia una riforma urbana sostanziale. Le città italiane sono le peggiori, seconde solo a quelle greche. Sono invase dal traffico. L’auto privata è un mezzo da usare solo per andare fuori città, non dentro. E’ una questione non solo di salute, ma sociale. Le auto invadono gli spazi pubblici: dove si deve creare aggregazione, ci sono macchine. Vanno anche cablate le campagne per decongestionare le città e in Toscana fortunatamente lo stiamo facendo, anche se in ritardo. Il Covid ha solo accelerato queste necessità