I finanziamenti in Italia per la ricerca e l’università sono diminuiti sistematicamente tra il 2007 (9,9 miliardi di euro) e il 2015 (8,3 miliardi di euro), in un contesto di riduzione complessiva della spesa pubblica.
Questo ha avuto un forte impatto sulle risorse umane, soprattutto a livello universitario, dove il numero di professori e ricercatori a tempo indeterminato è diminuito del 20% tra il 2009 e il 2016 (da 60.882 a 48.878 unità).
Le peggiori condizioni salariali nel nostro paese emergono anche dall’indagine MORE3 realizzata dalla Commissione europea. Nel campione di ricercatori coinvolti, la metà di quelli che lavorano in Italia (e tre dottorandi su quattro) dichiara di essere pagata male o quanto basta per sbarcare il lunario, contro il 15% dei ricercatori italiani che lavorano in altri paesi.
Colpa anche della mancata trasparenza nella assunzioni
Il pessimismo sulle prospettive di carriera e le cattive condizioni di lavoro in Italia sono altre ragioni fondamentali per cui i ricercatori italiani migrano all’estero. La mancanza di trasparenza nelle modalità di assunzione influenza anche quella che gli autori dell’articolo chiamano “mobilità forzata”. Il reclutamento nell’istituto di appartenenza è considerato trasparente e meritocratico infatti solo dal 57% dei ricercatori in Italia mentre dall’80% di quelli all’estero. I ricercatori italiani emigrati hanno inoltre il doppio delle probabilità di essere fiduciosi sulle loro prospettive di carriera rispetto a quelli ancora in Italia.
Per le loro analisi gli autori hanno incrociato vari dati, forniti da Ocse, Anvur e da MORE3, una indagine sulla mobilità della ricerca internazionale finanziata dalla Commissione Europea e condotta nel 2016, che ha esaminato una popolazione di 1 milione e 300mila ricercatori di trentuno paesi, raccogliendo oltre 10mila risposte, tra cui 581 provenivano da ricercatori italiani.