Neppure il coronavirus ha fermato il Meeting internazionale antirazzista (Mia). Non si è trattato din un atto di forza, bensì di una necessità. Seppur nel pieno rispetto delle regole – e della sicurezza sanitaria – la ventiseiesima edizione di questo evento che ha sempre trovato nella marina di Cecina il suo contesto ideale ha preso il via anche stavolta, e qui proseguirà fino al 12 settembre (gli eventi saranno trasmessi anche in diretta su Facebook). Tanti gli appuntamenti in programma, tra spettacoli, concerti e conferenze. Dall’antirazzismo all’accoglienza, si discuterà di temi delicati, contemporanei e sensibili. Di questo e molto altro abbiamo parlato con Gianluca Mengozzi, presidente di Arci Toscana, che conta 160 mila soci e 1.150 circoli e che, da oltre mezzo secolo, organizza e promuove il Meeting con il patrocinio e il contributo di Regione Toscana, Comune di Cecina e Cesvot.
Mengozzi, anche quest’anno è iniziato il Meeting internazionale antirazzista. Nell’anno del coronovairus nulla è come prima. Come cambia il Mia?
“È cambiato nella modalità e nella logistica. Del resto i regolamenti impongono dolorosi limiti alla partecipazione. Saranno ridotte le iniziative e gli spettacoli serali. L’area non può contenere più di duecentocinquanta persone contemporaneamente. Infine le circostanze ci obbligano all’iscrizione preventiva, ma l’auto-disciplina dei partecipanti non è di per sé un fattore escludente. Se ci sono spazi liberi ci si può accreditare anche all’ingresso”.
Perché, pur con tutte le limitazioni utili e necessarie, è così importante organizzare il Mia?
“È sempre più forte il bisogno di unirci per discutere su temi fondamentali come l’antirazzismo, il contrasto alla xenofobia, le buone pratiche di coesione sociale. Senza trascurare il dialogo tra enti, terzo settore, istituzioni e mondo della ricerca. Chi sostiene che nel 2020 non c’è bisogno di un evento come il Meeting antirazzista potrebbe essere smentito dai fatti“.
Si riferisce ai recenti fatti di cronaca?
“Abbiamo ancora negli occhi il tragico omicidio del giovane Willy, a Colleferro, cui sono seguite le sciagurate parole dei genitori delle persone accusate, per cui il ragazzo ‘era solo un immigrato’…”.
Quelle parole che storia ci raccontano?
“Indicano quanto sia ancora grande il lavoro da fare. Questi temi sono al centro del dibattito pubblico, che a volte si fa aspro. Soprattutto in un momento come questo, in cui ci si avvicina alle elezioni, sono stati utilizzati anche come strumento di dialettica politica”.
Ci sono anche luoghi comuni da sfatare?
“Durante l’emergenza sanitaria c’è chi ha puntato il dito su migranti e profughi ritenendoli untori. Fatti smentiti sia dalla comunità scientifica sia dai numeri. Sarebbe sufficiente saper interpretare le circostanze. Penso a tutti quei focolai che si sono sviluppati nei luoghi in cui i migranti, in realtà, se ne vedono pochi. Come nei locali della Costa Smeralda, ad esempio”.
Anche nella Toscana ‘accogliente’ si manifestano episodi di razzismo?
“Purtroppo sì. Questo è un sentimento trasversale da cui nessuna comunità può ritenersi immune. Per il razzismo non c’è alcun vaccino. È l’emersione di un sentimento che affonda le radici in dati antropologici che si possono combattere solo con una pratica educativa e culturale continua, a cominciare nell’infanzia. Ripeto: non ci sono ambienti immuni, neanche in quelli progressisti per tradizione. Ancor di più il razzismo si manifesta nei momenti di crisi e smarrimento”.
Però non c’è solo il razzismo. L’intolleranza ha molte facce.
“Esatto. Esistono sfumature, colori, pensieri, emozioni. Purtroppo la diffidenza e il rifiuto per l’arrivo di nuovi cittadini negli ultimi venticinque anni sono stati utilizzati per ottenere vantaggi politici. Questo rende il lavoro più complesso. Ora, più che mai, è importante conoscere i perché…”.
“Occorre umanizzare il fenomeno, creando un ponte sentimentale e compassionevole con persone che hanno le nostre stesse aspirazioni di felicità”
Quali sono le domande che tutti si dovrebbero porre?
“Perché partono? Cosa si lasciano alle spalle? Com’è la vita nel paese d’origine? Occorre umanizzare il fenomeno, creando un ponte sentimentale e compassionevole con persone che hanno le nostre stesse aspirazioni di felicità”.
Con eventi come il Mia, dedicato al tema dell’antirazzismo, esiste il rischio di predicare ai convertiti?
“Esiste, è un rischio serio. Ma non è mai stata questa la nostra intenzione. Alcune cose, nelle nostre sessioni, le diamo per scontate e insieme stabiliamo modalità, strategie e sistemi di azione senza ripartire ogni volta da capo. Il rischio lo scongiuriamo aggiornando le modalità d’intervento”.
Che cosa significa?
“Quello che abbiamo elaborato fino all’anno prima, non è detto che sia valido per l’anno successivo. È importante un richiamo alla responsabilità da parte di tutti. Istituzioni, amministratori, giornalisti, animatori sociali, e più in generale tutto il terzo settore”.
Insomma, è importante saper leggere il presente.
“Il nostro è un percorso di dubbio, le certezze non si raggiungono mai. I fenomeni migratori, tra l’altro, sono in continua evoluzione e i cambiamenti sono stati radicali. È un aggiornamento continuo che riguarda tutti e ognuno deve fare la sua parte. È un lavoro, questo, che non finirà mai”.
In questi ventisei anni quali sono i risultati più evidenti del Meeting?
“Il lavoro, è bene ricordarlo, è stato svolto dall’Arci insieme a tutte le altre organizzazioni. Tanti i successi. A cominciare dal sistema toscano dell’accoglienza, sancito anche da una legge regionale. Un percorso collettivo che ha trovato in questo luogo uno spazio di approfondimento. È proprio dentro al Meeting che sono stati sintetizzati alcuni principi”.
Qualche esempio?
“L’accoglienza diffusa, con un modello partecipato, e il rifiuto dei grandi centri di para-detenzione”.
“Si sono dissolti i riti di cittadinanza”
Arci, come molte altre organizzazioni, è sentinella del territorio. Il tema dell’antirazzismo non è l’unico su cui lavora. Pensiamo ad esempio ai campi della legalità organizzati a Suvignano. Quali sono i nuovi bisogni registrati durante e dopo il lockdown?
“In questi ultimi mesi terribili, inediti, abbiamo percepito la pericolosità di quello che stava succedendo con la progressiva perdita di coesione. Si sono dissolti i riti di cittadinanza. Il fatto che le persone di ogni età non poteva ritrovarsi per giocare o discutere o ballare o fare musica, be’, ci è sembrato grave ed estremamente pericoloso per la tenuta del sistema sociale. Abbiamo pensato fosse bene assumersi le responsabilità aprendo i nostri circoli appena è stato possibile, ovviamente disciplinando i dirigenti e agendo nel rispetto delle norme”.
Qual è il rischio più grande?
“Scoprirsi vittime della solitudine. Penso soprattutto agli anziani”.
Esiste anche un problema legato alla sostenibilità?
“Il mondo dell’associazionismo circolistico non ha risorse pubbliche su cui fare affidamento, ma si auto-sostiene coi proventi delle attività sociali. Diminuendo le attività, quindi, è diminuita anche la sostenibilità, con conseguenze anche gravi. Non senza fatiche abbiamo provato a elaborare una strategia. Quando tutto questo finirà il nostro sistema circolistico sopravviverà ancora. Ci saremo sempre“.
Immagina una Toscana senza associazionismo culturale e ricreativo?
“No. Se ci penso mi sale lo sgomento. Sappiamo però che non ci sarà mai alcuna mano pubblica che potrà sostenere un modello di aggregazione come questo. Sarebbe onerosissimo. Da parte nostra, l’impegno è enorme”.
Cosa chiedete?
“Nessun privilegio, sia chiaro. Ma attenzione e facilitazioni. Soprattutto in un momento così difficile. Perché rappresentiamo un’importante infrastruttura della socialità”.