Ormai ci è chiaro che dovremmo fare i conti con una vita diversa anche quando sarà passata l’emergenza. Siamo tutti in attesa della “fase 2”. L’aspettiamo come si aspetta la seconda stagione di una serie su Netflix e auguriamoci che non si tratti di Black Mirror.
Potremmo uscire? Potremmo tornare ad andare ad un concerto? Per quanto ancora dovremo fare a meno della musica, dei parchi, dei pic-nic, degli abbracci?
In questa fase 2 stiamo riponendo tutte le nostre speranze, quelle coltivate in un mese di isolamento, nelle riflessioni tra la cucina, il salotto e la camera da letto. Abbiamo accumulato così tante speranze che mi aspetto di vedere Conte nei panni di Massimo Decimo Meridio in giacca e cravatta, forse con il volto più provato di quello di un gladiatore, dire a tutti noi in diretta tv (o Facebook): “Al mio via scatenate l’inferno”. Magari. Forse troppo teatrale. Improbabile. Anche inutile.
Più plausibile un discorso alla Lorenzo il Magnifico: “Di doman non v’è certezza”. Sicuramente più appropriato. Più composto. Più responsabile. Più calibrato sulla situazione attuale.
In questa incertezza, c’è la certezza che dovremo prendere le misure con stili di vita diversi da quelli cui eravamo abituati. Un ruolo preponderante lo giocheranno i nostri dati. Il nostro DNA digitale. Si sente con molta più frequenza parlare di app per il tracciamento per la fase 2.
Il ministero dell’Innovazione ha messo in piedi una task force di 74 esperti il cui compito sarà quello di far convogliare idee su come avvalersi della conoscenza intrinseca ai nostri dati per fronteggiare l’emergenza Covid. Si guarda alla Corea. Ma non solo in Corea si sono avvalsi dei dati raccolti tramite gli smartphone per geolocalizzare gli spostamenti della cittadinanza e tenere sotto controllo i positivi, stessa scelta è stata fatta da Cina e Singapore. Da tempo circolava l’ipotesi che il contact tracing venisse applicato anche in Italia e l’istituzione della task force sembra fugare ogni dubbio.
Come saranno raccolti i dati? Dagli smartphone con ogni probabilità, forse anche tramite social network, Facebook ha già autorizzato l’accesso ad un ristretto gruppo di ricercatori impegnanti nella lotta alla pandemia (il programma si chiama “Data for Good” ed è già attivo da qualche anno).
L’utilizzo dei dati dei cittadini è lecito? Le Autorità per la privacy non dicono NO. Doppiia negazione articolata ma voluta. Quello dei garanti non suona come un SI incondizionato. È un SI con ma e se. È un SI con condizione. “Si a patto che non siano identificate le persone”, “Si a patto che l’individuo abbia dato il consenso”. “Si purché limitatamente al tempo necessario per combattere l’epidemia”.
“Sì se si tratta di dati effettivamente anonimi che descrivono i flussi di mobilità ma non identificano le persone – ha dichiarato Antonello Soro, presidente dell’autorità garante per la protezione dei dati personali in un’intervista pubblicata sul sito istituzionale. Altro sarebbe – ha aggiunto – se si volessero raccogliere dati identificativi: in questo caso servono garanzie adeguate e norme precise con limiti temporali”.
Come saranno raccolti, utilizzati e come poi resettati senza che finiscano in mani sbagliate è ciò su cui si interroga la task force del Ministero. Blindata almeno fino a dopo Pasqua.
Nel frattempo il dibattito ha preso piede anche fuori dal palazzo.
Ci sono più livelli di riflessione in merito. Una domanda lecita è quanto saremo consapevoli del monitoraggio in corso.
E quanto la consapevolezza inibirà le nostre scelte, anche quelle limitate che ci è rimasto di prendere.
Sapere che i miei spostamenti sono monitorati mi limiterà dal farli? Anche se pochi e necessari? Prevarrà l’inibizione o la razionalità?
Mi immagino uno scenario così. Esco a gettare la spazzatura, ho messo da parte plastica e cartone per giorni. Tutto insieme per limitare le uscite. Acquisizione dati completata.
Arrivo nei pressi del cassonetto e mi accorgo di aver seminato le scatole di Amazon nel tragitto. Torno indietro e le recupero. Acquisizione dati completata. Torno a gettarle, mica sono incivile da lasciarle in mezzo alla strada. Di nuovo: Spostamento registrato.
Mi vengono in mente Benigni e Troisi alla frontiera: “Chi siete? Cosa portate? Si ma quanti siete? Un fiorino”. In loop.
Davvero funzionerà così? Ovviamnete ci augiuriamo di no. Non ci sarà neppure l’obbligo di condividere i dati. Da quanto finora trapelato sembra che spetterà ad ogni singolo cittadino scegliere se scaricare e autorizzare l’app per il tracciamento. Pare assodato però che se una percentuale significativa della popolazione non darà accesso ai propri dati, vanificherà l’autorizzazione data dagli altri.
E questo è l’aspetto centrale: quanto inciderà il pressing sociale sulla scelta individuale di condividere la propria posizione e i propri riferimenti?
Da un lato la motivazione, che è di quelle poderose, di quelle che non si possono smontare, che non possono essere messe in discussione: la salute pubblica. Come si fa ad opporsi o ad avanzare ragioni contrarie alla condivisione dei propri dati se il loro scopo è combattere il virus che sta mettendo in ginocchio l’intero pianeta?. Come si fa a controbattere quando la motivazione dall’altra parte è il contributo di ciascuno (il sacrificio del singolo) per il bene collettivo? Chiunque proverà a giustificare la propria decisione di non autorizzare la condivisione, con ogni probabilità, sarà pubblicamente deriso, tacciato, sarà messo alla berlina (un po’ come accade ora con i runner: filmati e dati all’inquisizione social).
Dall’altro lato peró c’è un diritto, sacrosanto, sancito dall’articolo 13 della nostra Costituzione: “La libertà personale è inviolabile”.
Non è una questione da poco.
E quindi? Forse la cosa migliore che possiamo fare è dare rilevanza alla questione stessa.
Quanto valore diamo ai nostri dati? Fino a ieri forse meno di un fiorino. Diciamoci la verità, non ci soffermiamo più di due secondi prima di autorizzare una qualsiasi app di Facebook, società privata con interessi privati e con dichiarato (seppur non esplicito) fine di lucro, ad utilizzare per i propri scopi la nostra posizione o le nostre preferenze.
Non regge la motivazione: “Non ho nulla da nascondere”. Vero, ma stiamo comunque dando ad un altro la chiave di lettura delle nostre scelte, preferenze, emozioni, inclinazioni, ecc. Forse ne siamo solo inconsapevoli, adescati dal fatto che in cambio ci vengono offerti servizi gratis, in realtà la merce di scambio siamo noi.
In questa attesa spasmodica per la fase 2, porre attenzione a noi stessi potrebbe significare anche soffermarci sul valore della nostra identità digitale.
Forse sarà importante evitare che sulla questione privacy/dati/libertà il dibattito sia ridotto ai minimi termini: il singolo per la collettività. La parte per il tutto. Anche perché la vita non è una sineddoche. Forse dovremmo ripensare ai comuni denominatori dell’espressione e rimettere la scienza al centro partendo dal presupposto che i dati hanno valore. Altrimenti non sarebbe stata istituita un’apposita task force.
Non sarà Black Mirror se avremo almeno acquisito coscienza dei limiti e delle potenzialità del nostro io digitale. La realtà post Covid sarà abitata da una società ancora più interconessa, che ha imparato (gioco forza) a sopravvivere in quarantena proprio grazie a quell’io digitale e nella quale la vita reale si affiancherà e mischierà sempre di più con quella virtuale: come starci dentro dipenderà molto dalle riflessioni che faremo oggi. Anche da quelle su dati e privacy.