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La storia di Enzo Magnozzi, il re del calcio d'America

Due cugini uniti dall'amore per il pallone: Mario, campione del Livorno ed Enzo che ha cercato la sua fortuna sportiva negli Stati Uniti, contribuendo a "salvare" il calcio americano

/ Redazione
Gio 20 Aprile, 2017
enzo_magnozzi
di Marco Ceccarini
 
Il ricordo di Mario Magnozzi, uno dei primi campioni del calcio italiano, è ancora nitido in molti amanti del pallone. Lo è a Livorno, dove nacque e dove un suo busto si erge accanto a quello di Armando Picchi allo stadio d’Ardenza, dove c’è una strada in suo onore a San Marco e dove l’impianto sportivo delle Sorgenti porta il suo nome, ma lo è anche nel resto d’Italia. Perché Magnozzi, oltre che centravanti della Nazionale e medaglia di bronzo alle Olimpiadi di Amsterdam, fu anche un attaccante del Milan e un brillante allenatore proprio del Milan e dell’Aek Atene, oltre che del Livorno.
Molti conoscono Mario Magnozzi, detto il Motorino, per la sua instancabile energia. Lo conoscono come l’eroe di un calcio che non c’è più. Di lui ricordano le gesta epiche ed i gol messi a segno a raffica, il suo segnale di “riscossa” dato alla squadra col semplice gesto di rimboccarsi le maniche, il fatto che era un leader naturale, dentro e fuori il campo.
Ma quasi nessuno, neppure a Livorno, sa che nel calcio c’è stato un altro Magnozzi. Che di Mario era parente e che era livornese anche lui. Un Magnozzi che ha costruito il suo successo, però, al di là dell’Oceano, dove il suo nome figura addirittura nella Hall of fame degli Stati Uniti d’America.
Enzo Magnozzi nacque a Livorno il 20 giugno 1920, lo stesso giorno in cui il Livorno, trascinato dal talento e dai gol di Mario, fece tremare l’Internazionale a Bologna nella finale per il titolo italiano. E ciò è davvero curioso, straordinario, quasi un segno del destino.
Cosa deve aver significato, nella testa del piccolo Enzo, il fatto che il cugino di suo padre Spartaco Magnozzi fosse un giocatore amato e stimato, un campione riverito e ricercato, solo lui deve averlo saputo. Ma a noi piace immaginare che quello deve essere stato lo stimolo che lo ha fatto innamorare del pallone.
Erano, quelli, anni in cui il calcio si affermava in Italia come fenomeno di massa con risvolti sociali ed economici. Il calcio dimostrava di saper coniugare l’attività agonistica e la passione sportiva, il potere e gli interessi economici. Ammaliava le folle. E poiché esaltava l’identità di una città, o di una nazione, il fascismo ne sfruttò le caratteristiche per creare consenso.
 
Enzo nacque in un periodo in cui l’Italia, uscita vittoriosa dal primo conflitto mondiale, era in realtà un Paese povero, dissanguato proprio dallo sforzo bellico, dove l’emigrazione veniva favorita anche come valvola di sfogo sociale. E dove, appunto, lo sport e il calcio si affermavano a passi svelti.
Il Livorno dettava la propria legge sul terreno di Villa Chayes e sui campi di mezza Italia, mentre Enzo cresceva e come tutti i bambini giocava al calcio per le strade della sua città, sognando di far parte un giorno dei Boys, i ragazzi dell’Unione Sportiva.
Ma un giorno quel sogno si infranse. Le Triglie amaranto scomparvero dall’orizzonte di Enzo, che venne messo a confronto con la dura realtà dell’emigrazione, con il viaggio verso le Americhe, con il porto di Nuova York, come si diceva allora, che accoglieva gli emigranti con la statua della libertà e con la speranza di una nuova vita in cui però nulla era scontato.
Per Enzo finirono le partite a pallone per le strade salmastrose di Livorno e finì il sogno di ripercorrere le tappe del cugino famoso. Ma fu per poco. Tutto ricominciò, difatti, poco dopo, dall’altra parte del mondo.
A New York, nel quartiere di Greenwich Village, il padre Spartaco aprì un ristorante italiano. Ed Enzo, in quelle strade così diverse da quelle livornesi, ritrovò la medesima passione e riprese a giocare a calcio, questa volta con i figli di altri emigranti, italiani e non solo.
 
Nel 1934 passò il primo tram e lui lo prese al volo. Lasciò la suburbia d’adozione per firmare il suo primo contatto con la Portuguese Fc, squadra con cui giocò nella Lega calcistica di Brooklyn, dove i più erano di origine italiana, spagnola e portoghese e dalla quale prese il via la sua brillante carriera.
Enzo coronò il sogno di vivere giocando a pallone anche a migliaia di chilometri dall’Italia. Il calcio nordamericano, certo, non era ai livelli di quello italiano o tedesco o argentino o brasiliano e tantomeno inglese, ma in quegli anni Trenta i vari campionati che si giocavano negli Stati Uniti, specie attorno a New York, erano tutt’altro che scarsi.
 
Enzo Magnozzi fino al 1951 disputò le maggiori leghe americane, vincendo nel 1938, a soli 18 anni, il campionato della Lega metropolitana di New York con i Flatbush Wanderers, cosa che gli permise di essere ingaggiato dallo Swiss Fc, il forte club di matrice svizzera dal quale passò prima al Newark Fc e quindi agli Hoboken, i temibili tedesco-ungheresi della Lega tedesco-americana. Dopodiché, a suggello di una carriera di tutto rispetto, fino al 1959 continuò a disputare tornei con i Paterson Caledonians, con i New York Brookhattan e con i New York Hakoah. Nel 1960 fondò il Club Inter Soccer, in onore dell’Inter, dove svolse il ruolo di giocatore ed allenatore e che nel 1963 si fuse con la Giuliana, la più antica e prestigiosa squadra della comunità italiana di New York, assumendo la denominazione di Inter Giuliana, che negli anni Sessanta, prima del grande crack del calcio nordamericano, fu una delle poche squadre statunitensi ad avere un minimo di credibilità internazionale.
 
Nel 1963, archiviata l’esperienza del calcio giocato, il Magnozzi d’America prese ad occuparsi dell’Inter Giuliana come allenatore e dirigente oltre che a propagandare il calcio negli Stati Uniti proprio nel periodo in cui, con la decadenza delle leghe collegate alle comunità di immigrati, il soccer imboccava il tunnel della crisi. Nonostante la vittoria del titolo di allenatore dell’anno nel 1964 con l’Inter Giuliana nella nuova Lega nordamericana, decise di dedicarsi alle attività di organizzatore di tornei e di promotore del calcio.
 
La crisi del calcio statunitense, apertasi con gli anni Cinquanta, era divenuta nerissima sul finire degli anni Sessanta, con l’inevitabile conseguenza che i primi anni Settanta furono terribili. Lui era tra coloro che sognavano la rifondazione delle leghe calcistiche, la loro unione e la rinascita della Federazione nazionale. Andava controcorrente e si impegnava nell’organizzazione di tornei. Sognava la ripresa del soccer, che in meno di vent’anni si era annientato, ed era uno dei pochi, anzi dei pochissimi, a lavorare in questo senso. La maggioranza degli addetti ai lavori, ormai, si era arreso.
 
Enzo Magnozzi chiamava le grandi squadre europee e sudamericane a giocare negli Stati Uniti e in Canada e alla fine ebbe il merito di non far spengere del tutto la fiammella del calcio nel Nord America. Tra i campioni che Enzo portò a giocare a quelle latitudini, Eusebio e Pelè, Facchetti e Mazzola e Picchi, il capitano della grande Inter, livornese come lui.
 
La svolta, per il calcio americano, si ebbe quando il sistema imprenditoriale si accorse che anche il soccer poteva diventare un business. In breve nacquero nuove squadre e nel 1974 venne rifondata la Federazione. Arrivarono Pelè e Chinaglia. La squadra dei Cosmos divenne famosa in tutto il mondo. La Nazionale a stelle strisce prese la bellezza di dieci gol da quella italiana in una surreale amichevole giocata all’Olimpico di Roma, nell’aprile 1975, in un periodo in cui gli Azzurri erano tra l’altro in crisi, dopo la brutta figura ai Mondiali di Germania. Ma il calcio, nel Nord America, rinasceva come fenomeno commerciale, non sportivo, e la strada da percorrere era tutta in salita.
Anche se non stava diventando e non sarebbe diventato quello che avrebbe voluto Magnozzi, il calcio statunitense era salvo. Questo era quello che contava. E il merito era anche suo. E di pochi altri. Era infatti grazie a gente come lui che il movimento calcistico non si era annientato. Così nel 1977 la Federazione calcistica degli Stati Uniti, che poi è diventata forte e strutturata, lo ha inserito nella Hall of fame, la galleria della fama, come promotore e benefattore del calcio. Enzo Magnozzi, che fu anche presidente della Lega tedesco-americana dal 1981 al 1983, è scomparso a New York il 7 dicembre 1987. Il suo nome rimarrà per sempre nella storia del calcio d’oltre Oceano.
 
Nei giorni scorsi, a Livorno, si è finalmente ricordato e reso omaggio al Magnozzi d’America. La giornata è stata organizzata dal portale Amaranta.it, che ha portato in città il nipote di Enzo, Mark Magnozzi, avvocato e notaio a New York.
 
“Sono emozionato. Mio nonno sarebbe felice di sapere che la sua città natale, cui è sempre rimasto legato, si è ricordato di lui”, ha affermato. E poi: “La mia squadra italiana è il Livorno. Spero che gli amaranto possano tornare presto in alto. A New York metterò la maglia che mi hanno regalato allo stadio accanto a quella che già ho di Lucarelli”.
 
 
Mark Magnozzi è stato ricevuto in Comune dall’assessore allo Sport, Andrea Morini, che gli ha donato uno stendardo della città. Poi, sempre in Comune, Amaranta.it gli ha consegnato una targa “In ricordo di Mario ed Enzo Magnozzi”. E’ stato quindi condotto al Club amaranto Magnozzi, intitolato al grande Mario, dove il presidente Enrico Fernandez Affricano gli ha regalato una medaglia e un gagliadetto. E allo stadio d’Ardenza, per mano del team club Igor Protti, il Livorno Calcio gli ha donato una maglia amaranto con il nome Magnozzi sulle spalle. Sarà quella maglia a finire accanto alla casacca di Lucarelli.
 
L'autore - Marco Ceccarini è redattore di Toscana Notizie, l'agenzia per l'informazione della Giunta Regionale e animatore del portale Amaranta.it