Visto da vicino nessuno è normale, sosteneva lo psichiatra Franco Basaglia, il padre della famosa legge che ha portato alla chiusura dei manicomi e infatti alla fine de “La pazza gioia” di Paolo Virzì viene da chiedersi non solo quanto sia sottile la linea che divide il mondo dei sani da quello dei malati di mente ma anche se non sia solo una distinzione arbitraria, un’etichetta da appiccicare per dare un nome alle cose che ci fanno paura.
Sono proprio due matte certificate le protagoniste dell’ultimo film del regista livornese, girato in Toscana e uscito nelle sale in questi giorni dopo un’accoglienza trionfale al Festival di Cannes: Beatrice e Donatella si incontrano in una comunità terapeutica per donne con problemi mentali e tra loro nasce un’improbabile amicizia che le trascinerà in una fuga on the road da Montecatini a Viareggio, alla ricerca di qualcosa che possa ridare un senso alle loro vite.
“È un film sul dubbio: cos’è la pazzia e cosa la normalità? – ha spiegato Paolo Virzì presentando la pellicola oggi a Firenze – sono temi che spaventano perché siamo tutti bravi a indossare la maschera del presunto sano e chi non ce la fa viene stigmatizzato e allontanato dalla società. Questo film poteva fare paura, invece viene accolto con commozione e con un senso di liberazione: questa per me è la vera vittoria.”
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Beatrice – una strepitosa Valeria Bruni Tedeschi – è una continua fonte di battute al vetriolo e grasse risate: sedicente contessa istrionica, egocentrica e bugiarda, è un’impicciona che passa da un imbroglio all’altro volteggiando sui tacchi alti e sorseggiando Martini. Donatella invece ha il volto scavato di Micaela Ramazzotti e un macigno nell’anima che la trascina ogni giorno nell’abisso: il segreto della sua maternità negata è il filo rosso che seguiamo per tutto il film, scendendo con lei sempre più in basso, fino a quel fondo catartico da cui non si può far altro che risalire.
Beatrice e Donatella, abbandonate dalle loro famiglie e rifiutate da una società opportunistica, solo abbracciate sul muretto di Piazza Mazzini in una Viareggio crepuscolare e malinconica capiranno che c’è un’unica cosa buona che può salvarle: l’affetto che provano l’una per l’altra.
“La cura per il disagio mentale non è mai la reclusione ma l’amore, la relazione affettiva, come lo straordinario legame che si sviluppa tra le mie due protagoniste – conclude Virzì – volevo raccontare una storia che contenesse una verità umana, che mostrasse come questo nostro mondo può essere meraviglioso e miserabile allo stesso tempo.” Missione compiuta per il maestro di quella commedia italiana che sa divertire e commuovere allo stesso tempo, in cui la risata si confonde con il pianto e si esce dal cinema col celebre “ovosodo” piantato in gola, che non va né in su né in giù.
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