Bari, 1984. L’Italia si prepara a cambiare rapidamente pelle e a dire addio al suo millenario assetto sociale: sulla scena si affacciano imprenditori improvvisati, intraprendenti guidati dalla stella polare del soldo facile. Nei quartieri in della “Milano del sud” i nuovi benestanti comprano ville e pellicce, mentre a Japigia, in periferia, prolifera il gigantesco spaccio a cielo aperto di droga. L’imperativo è accumulare, consumare, fino a dimenticare se stessi, fino ad annientarsi, come fa l’eroinomane, come fanno le madri che bruciano chili di carte di credito nelle boutique chic.
È questo il mondo dove crescono Giuseppe, Vincenzo e il narratore: tre compagni di liceo segnati dagli effetti di questa mutazione genetica, tra famiglie disastrate e genitori ciechi, incapaci di scorgere la strada che li sta portando tutti alla distruzione.
È questa la strada che Nicola Lagioia percorre fino in fondo nel suo terzo libro “Riportando tutto a casa” (Einaudi), con cui lo scrittore barese si è aggiudicato il Premio Viareggio Repaci. Romanzo di formazione e distruzione che, come si legge nella motivazione della giuria, “racconta con parole ricche di in
venzione questa storia dolorosamente italiana riuscendo a riportare “a casa”, attraverso la scrittura, i frammenti dispersi della giovinezza di molti”.
La prima domanda è la più scontata: perché hai scelto gli anni Ottanta? Leggendo “Ritornando a casa” si ha l’impressione che non sia tanto lo spartiacque simbolico tra due generazioni – una normale evoluzione, insomma – ma proprio il punto di non ritorno di un mondo che va avanti gettando un improvviso e totale colpo di spugna su tutto il passato…
Stando a quanto dice Eric Hobsbawm, alla fine degli anni Ottanta, con la caduta del muro di Berlino, si conclude il Novecento. Per cui sì, il mondo volta pagina e l'Italia subisce a mio modo di vedere un moto d'accelerazione in quel processo di work in regress che abbiamo nascostamente covato sin dall'inizio della nostra storia di cosiddetto stato sovrano. Alla breve, elitaria, meravigliosa esperienza dei padri costituenti o del partito d'azione si è sempre contrapposta l'anarchia a basso costo, la smemoratezza di convenienza, il servilismo come istinto primario che fanno dell'Italia un condominio perennemente a rischio di liquidazione. Negli anni Ottanta scatta effettivamente qualcosa, il peggio che c'è sempre stato si libera per così dire dei propri freni inibitori. Così, scrivere un romanzo sugli anni Ottanta ha per me significato raccontare l'Italia di oggi: stiamo vivendo la cancrena di quella fase lì.
Tu sei nato e cresciuto a Bari nello stesso periodo in cui si muovono i tuoi personaggi, cosa ha significato per te evocare i luoghi e l’humus della tua adolescenza? È stata un ritorno traumatico o catartico?
Quello con Bari – la città in cui sono cresciuto, e che poi ho abbandonato, che ho amato tra mille riserve ma senza mai la possibilità di sottrarmene emotivamente – è un rapporto da sempre e per sempre non riconciliato. Ancora oggi, quando torno a Bari, se da una parte sono felice di incontrare i miei famigliari, dall'altra ho l'impressione di vagare per una città di fantasmi: in una strada mi sembra di vedere il calco ectoplasmatico di me ragazzino che do il primo bacio, davanti a un portone c'è un ex amico fraterno che non vendo né sento da tantissimo tempo, in un bar c'è ancora lo svenimento di un tossico che svenne effettivamente in quel bar nel luglio del 1988... e così via: temo sia inevitabile, se la città in cui sei vissuto era un luogo che, nel bene e nel male, ti consentiva di fare esperienza. Temo che da questo punto di vista trauma e catarsi siano indissolubili.
I ragazzini pomiciano solo per emulare “Il tempo delle mele”, gli adulti partecipano a una ridicola e pietosa pseudo-orgia su uno yacht per sentirsi uguali alla borghesia progressista del Nord, tutti hanno bisogno di recitare una parte, come se nessuno avesse chiara la propria identità: è questo il “vuoto pneumatico” di cui parli nel romanzo?
Sì, è anche questo. Viviamo in un mondo in cui l'individuo così come abbiamo imparato a intenderlo e costruirlo dal Rinascimento in poi diventa sempre più debole (e non a caso il tramonto dell'individuo scorre a doppio filo con l'elefantiasi dell'individualismo) mentre i modelli partoriti dal mostro acefalo dei mass media sono al contrario sempre più forti e pervasivi: tutto questo non può che svuotarci da dentro, impoverirci, renderci sempre più inoffensivi e bidimensionali. Dovremmo riuscire a elaborare un nuovo tipo di umanesimo.
Lo spaesamento dei tuoi protagonisti va di pari passo con quello dei loro genitori, completamente incapaci di assolvere alle loro funzioni, presi solo dal fare soldi: in questi ragazzi lasciati a farsi da soli da padre e da madre sta forse il grande trauma di chi è cresciuto negli anni Ottanta?
Da una parte magari è così. Dall'altra è vero però che questi ragazzini, lasciati molto a se stessi, godevano di una libertà che poi si è rivelata preziosa e pericolosa al tempo stesso. E io credo che tutto sommato valga la pena di correre qualche pericolo, di mettersi in gioco. Essere allo sbando non è sempre una condizione deprecabile – i periodi più caotici, sbandati e violenti della mia vita sono stati anche quelli che mi hanno aperto più possibilità, che mi hanno fatto conoscere situazioni e persone con le quali altrimenti non sarei mai entrato in contatto. Il problema non è stare allo sbando, il problema è essere inquadrati: se sento una mancanza, oggi, è quella degli eretici.
La memoria può essere davvero una cura per tutta l’Italia come lo è per il narratore del tuo libro? Ricostruire il passato può servire a ridarsi la possibilità di un futuro?
Ricostruire il passato con la maniacalità dell'io narrante di "Riportando tutto a casa" credo sia un buon motore narrativo. Dubito però che sia la panacea per evocare il grande assente di questi anni: un futuro da immaginare e da inseguire.
L’adolescenza qui appare come l’unica parentesi di vita “reale” e significativa, a cui segue un’età adulta arida di emozioni: quando il narratore incontra i suoi vecchi compagni di classe e amici sembra quasi che di fronte alla potenza del passato la loro esistenza adulta impallidisca, forse perché non sono mai cresciuti davvero?
Acquisire lo sguardo adulto credo sia una delle conquiste più difficili in questo paese. Viviamo in una gerontocrazia, tutto congiura perché la linea d'ombra non venga attraversata. Al protagonista del romanzo di Conrad l'occasione di attraversare la linea d'ombra viene data insieme a un'assunzione di responsabilità: gli viene offerto cioè il comando di una nave. Dubito che oggi in Italia chi consuma il sonno della ragione nelle stanze dei bottoni abbia voglia di cimentarsi in quest'arte di cui abbiamo perso memoria: il passaggio del testimone. Vero pure è che la vita si rivela puntualmente comunque più forte di ogni cosa, di conseguenza prima o poi adulti lo si diventa per forza.
Tu dirigi la collana Nichel della Minimum Fax dove hanno pubblicato anche giovani autori come Valeria Parrella, Peppe Fiore o Giorgio Vasta, che idea ti sei fatto della nuova narrativa italiana? Come siamo messi?
Credo che la letteratura italiana di questi ultimi vent'anni sia molto vitale. Ce ne accorgeremo magari pienamente tra qualche lustro, quando la giusta distanza spazzerà via resistenze e pregiudizi che sono propri di ogni epoca. La letteratura ha come metro di misura la lunga distanza.
Il tuo esordio – “Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj (senza risparmiare se stessi)” – era un libro decisamente sperimentale, col tuo secondo romanzo “Occidente per principianti” hai mostrato l'Italia di oggi in un viaggio on the road, che hai in mente per il tuo prossimo lavoro?
Tutto quello che ho in mente è appunto solo in mente, nel senso che nulla è sulla carta, e le semplici idee - quando si limitano a galleggiare nella testa di uno scrittore - temo siano molto simili ai negativi delle foto: metterle subito in luce rischia di bruciarle.