C'è una macchinina rossa. Una di quelle con cui molti maschietti hanno giocato a lungo prima dell'adolescenza, immaginando di correre su chissà qualche prestigioso circuito. Quel bambino, il proprietario della macchinina rossa, all'adolescenza non c'è mai arrivato. È morto il 3 ottobre 2013 in quel terribile naufragio al largo di Lampedusa. Quello in cui persero la vita 368 persone. Si chiamava Esrom e quel prezioso giocattolo ce l'aveva in tasca.
Per tre giorni quella macchinina rossa è esposta in una teca, a Prato, insieme ad altri oggetti appartenuti alle vittime. Ci sono foto di persone amate, sgualcite e consumate dall'acqua e dal sale. Ma anche occhiali da sole, telefoni cellulari, documenti, un foglio a righe con su scritta una lunga lista di numeri di telefono mai più stati digitati. E poi ci sono oggetti sacri. Croci, anelli, simboli di una fede che è stata probabilmente invocata con disperazione prima che la luce si spengesse definitivamente. Là, in mezzo al mare.
Andando oltre i numeri, i tanti progetti e le buone pratiche di accoglienza, quello che conta sono le storie. E qua, a Prato, in occasione del festival Mediterraneo Downtown, di storie narrate e condivise ce ne sono tante. Non sono solo storie di migranti e migrazioni, ma storie di vita, storie di chi cerca di raggiungere l'Europa. Qualcuno è morto prima, durante il viaggio. Ma c'è anche chi in Europa c'è arrivato, senza però incontrare la felicità.
Queste sono le storie di Jon, Aziz e di altri bambini come loro. Bambini frustati con tubi di gomma, prigionieri in Libia. «Quando qualcuno moriva nel deserto, buttavano via i corpi. Non lo seppellivano mica...». A raccogliere le testimonianza è il MuMi, l'associazione museo migrante. Sono loro ad aver messo in mostra gli oggetti dei morti a Lampedusa, a lungo posti sotto sequestro dalla Procura. Lo racconta il presidente del MuMi, Valerio Cataldi, che non a caso di mestiere fa il giornalista (al Tg2). Sa cosa significa narrare, conosce l'impatto emotivo del racconto e di quanto lo storytelling - seppur drammatico - possa incidere sulla cultura di un paese.
Questi bambini hanno visto cose che a otto, nove o dieci anni non si dovrebbero mai vedere. Mai. Bambini che hanno camminato per ore, giorni, settimane su strade sterrate e su asfalti roventi con scarpe non adatte. «Siamo in viaggio da così tanto tempo che non ricordo neanche com'è fatta la mia casa. Ricordo che quando siamo andati via c'era un buco nel tetto e polvere dappertutto» racconta in video una bambina siriana. «Mamma ha detto che quando arriveremo in Europa potrò tornare a scuola e non ci saranno più bombe». Al di là di quel fiume c'è l'Europa, gli dice suo padre. «Siamo quasi arrivati, ma ci sono i poliziotti con i manganelli».
Questo festival organizzato da Cospe onlus, Regione Toscana e Comune di Prato - insieme a molti altri partner - nasce per raccontare il Mediterraneo contemporaneo. E per questo assolve ampiamente al suo compito, che però si spinge oltre, sempre più in là. Se l'immagine drammatica di certe narrazioni migratorie colpisce il cuore prima di colpire lo stomaco, ci sono emozioni che si trasmettono - e fanno cultura - passando anche dalla gioia. Quella di chi c'è l'ha fatta, certo, ma anche quella di chi è stato accolto.
Sì, Mediterraneo Downtown ha tutte le caratteristiche di un festival. Ci sono approfondimenti, mostre, musica, laboratori. I ragazzi migranti fanno parte dello staff, fornisco indicazioni ai partecipanti e fanno parte a tutti gli effetti di questa grande narrazione che, come ricorda Paola Barretta (Carta di Roma), quando passa dalla comunicazione mainstream troppo spesso asseconda gli stereotipi. Cosa significa? Semplice: quando i media scelgono le immagini con cui raccontare l'immigrazione, si preferisce il bambino che piange a quello che sorridente. «La foto del migrante in giacca e cravatta è stata rifiutata da tutti perché non assecondava lo stereotipo» spiega Paola. «Era vestito così quando è fuggito, ma probabilmente si cerca di trasmettere un'altra immagine».
Nel giorno dell'inaugurazione si è parlato tra l'altro dei bambini invisibili, delle città simbolo del Mediterraneo (a cominciare da Istanbul), di graphic novel e di nuovi linguaggi giornalistici. Una giornata intensa, difficile da riassumere davvero. Per questo ci appelliamo ad alcuni simbolici flash: «Occorre passare dalla protezione alla promozione» (Alessandro Salvi, Regione Toscana); «Siamo l'ospedale d'Europa, perché li curiamo tutti noi» (Gianpaolo Donzelli, presidente della Fondazione Meyer); «Istambul, città che ha un destino» (Franco Cardini, storico); «Salvare vite umane dev'essere la priorità per ciascun essere umano al mondo, in qualsiasi circostanza si trovi» (Carlotta Sami, portavoce Unhcr).
Per informazioni e programma: mediterraneodowntown.it