Giugno 1951 - Genova. La partenza. La nave.
Una nave bianca e pura era dunque la mia. Era un buon segno e splendeva in mare come un regalo. Avevo lasciato Firenze accompagnata da mia sorella e ora ero sulla via del porto, una strada piena di curve che scivolava petrosa giù per i bassi fondi di Genova. C’eravamo stati la sera prima laggiù per cena con mia sorella e il suo fidanzato, senza saperlo. Al ritorno nella notte fra donnette e marinai, pareva ci fosse un concerto da quelle parti!
La stazione portuale era veramente una cosa faticosa (in certe occasioni sarebbe bello essere ricchi e avere della servitù intorno a far tutto per noi!). Ad un certo punto trovata la via giusta per entrare, attaccati i cartellini Home Lines alle varie valigie, fui mandata nella sala dove dovevo stare in fila con gli altri viaggiatori di Cabin Class. Dalla parte opposta alla mia c’era la fila degli emigranti, sporchi e stanchi, che si pigiavano, si urtavano, si leticavano, sfiniti dal caldo e dall’ossessione. Oh! gli emigranti devono provare tanto in certi momenti! Lasciano la propria terra perché non hanno da vivere e vanno verso un’altra senza conoscerla, senza poter sapere cosa capiterà. Era la prima volta che vedevo i famosi emigranti. Li guardavo soffrendo senza potermi voltare ad osservare i ricchi con i quali ero in fila. Mentre ero così invasa dalla loro turbolenza, un uomo piccolo e piuttosto giovane, con la testa tonda come uno zucchino, strangolato al collo da un fiocchetto viola dal quale saltavano fuori sul naso gli occhiali tondi cerchiati d’argento, mi s’avvicinò sorridendo per sapere se ero "una borsa Fulbright". Sorpresa, risposi di sì. Mi spiegò che doveva cercare i sette laureati che andavano in America con la borsa Fulbright e che stava puntando tutte le facce per riconoscerci. Mi fece voltare e dietro di me mi presentò altri due "fortunati": Paolo e Franco. Questo incaricato volle sapere ancora qualcosa di me; scrittone ciò che gli parve opportuno, mi chiese di aspettarlo poi vicino al ponte della nave per le fotografie da pubblicare sui giornali, ecc...
Durante la fila i documenti salirono come la febbre, non sapevo più in quante mani fossero passati e quanti se ne fossero aggiunti, ma finalmente il termometro calò e fui libera sulla darsena. La grande nave era proprio al mio naso. Potevo toccare ora tutta quella magia! Fui raggiunta di nuovo dal nostro addetto ed altri due "fortunati" mi vennero incontro: uno veterinario e l’altro un letterato. L’ingegnere, già conosciuto a Firenze ad un cocktail d’addio all’ambasciata americana, arrivò anche lui sul ponte come un topo spaventato. La settima "fortunata" mancava, ma nessuno la cercava ed io da altro canto non sapevo che esistesse. […]
I grattacieli cominciarono ad apparire. La statua della Libertà si profilò vicina nella nebbia. Tutti i passeggeri, anche quelli che non mi avevano mai parlato, si rivolsero a chiedermi se avevo visto o sapevo questo o quello... tutti da me venivano come se l’Atlantic avesse fatto tutto quel viaggio per me ed essi mi avessero accompagnata. Quando vidi quella statua pensai a Michelangelo, chiusi gli occhi e non dissi niente a nessuno. I grattacieli venivano avanti come oscure bottiglie su un vecchio scaffale di cantina. La pioggia torrenziale li rendeva muti e trasparenti. Le darsene si susseguivano nere e solitarie. Un brutto arrivo.
Jimmie mi salutò nel corridoio e sparì. Finalmente la nave trovò il suo marciapiede e si fermò. […]
Un sabato pomeriggio Race stava venendo nel nostro giardino con dietro, a passi timidi, una ragazzina dai capelli sciolti sulle spalle, pantaloni e camicia a dadini bianchi e neri, e ben attillati. Race ci presentò Julie con molto entusiasmo. Gli occhi di lei, dandoci la mano, si spalancarono azzurri come due pezzi di turchese. Julie aveva studiato fra molte altre cose anche da torera a una giovanissima età, poi danza e teatro. Era di passaggio per Albuquerque, in arrivo dal Texas e diretta a New York. Il padre di lei era stato grande amico del Capo del Pueblo di Santo Domingo, Pitacio Quintana, il quale adorava Julie come una figlia. L’indomani mattina, Cliff ed io con Julie e Race ci dirigemmo a quel Pueblo dove ci sarebbero state le Danze del Granturco e dove Julie avrebbe potuto rivedere i suoi amici.
Arrivati al villaggio, il governatore e sua moglie, tutt’e due già di età inoltrata, ci ospitarono con tanta gioia come se fossimo stati loro figli. Gli abbracci fra i due anziani e Julie erano addirittura commoventi.
Tutti seduti intorno a un tavolone, la "mamma" ci portò dei dolci e della spremuta d’ananasso, perché ci si rinfrescasse dal viaggio. Nella stessa stanza, tavoli più piccoli coperti da un vetro, mettevano in mostra gioielli di argento e turchese che il governatore stesso aveva fatto anni prima. Aveva trovato una cava di turchese che poi gli fu portata via dalle autorità. Da allora aveva lasciato quell’arte comprando invece campagna.
Le Danze del Granturco non erano a Santo Domingo, ma al Pueblo di San Ildefonso, a qualche ora di distanza, nella stessa riserva indiana. E allora perché non portarci anche i nostri due ospiti?!
Pitacio e sua moglie si vestirono in fretta da festa; lui con una splendida fascia rossa intorno alla testa, lei con scialli di seta. Calzarono i bei mocassini dai bottoni d’argento; infilarono una dietro l’altra tutte le collane d’argento e turchese giù per il collo, alle braccia bracciali incastonati e alle dita tutti gli anelli che possedevano.
Erano felici della bella occasione di vedere le danze a San Ildefonso e di essere con noi. Pitacio per tutta la strada cantò in indiano, mentre noi in silenzio si ascoltava, facendo tesoro della sua voce così profonda e dalle mille modulazioni. Race era veramente felice. La macchina si fermò a metà strada, ma il governatore tranquillamente seguitava i suoi canti, mentre tutti noi, in grande agitazione, si chiedeva un passaggio ad altre macchine per andare a prendere della benzina al primo distributore. Cliff andò e tornò in pochi minuti, mentre Race aveva già rimesso in moto la macchina e quasi lo perdevamo per la strada.
A San Ildefonso le danze si svolgevano su tutt’e due le piazze del villaggio. Ne finiva una da una parte e ai rintocchi di tamburo, iniziava l’altra dall’altra parte. Le danze erano belle e perfette come quelle del Pueblo di Cochiti, peccato che qui non ci fosse il piccolo Junior. Passammo tutto il pomeriggio accovacciati all’ombra di una Kiva sopraelevata, di fronte alle belle file dei danzatori, ascoltando in silenzio i cori profondi che si univano all’aria e al profumo di pino bruciato. Il sole illuminava uomini e donne che nei loro costumi parevano davvero degli dei. Si lasciò il villaggio che gli ultimi raggi del sole, caldi e vermigli, rasentavano le terrazze alte del Pueblo. Le piazze vuote dopo la festa, sembravano riposare, palpitando ancora nella polvere appena battuta. Rimaneva in quel villaggio il nostro cuore, un pomeriggio santificato, donato allo "Spirito Supremo". […]
Il ritorno a casa per me fu una grande confusione di emozioni. L’anellino mi guardava con i suoi granelli azzurri: per me la promessa di tutti i pellirossa, forse anche di Cliff, (chi sa se mi avrebbe davvero raggiunto in Italia). Le lacrime cadevano con i vestiti nelle valigie giorno per giorno. Race veniva ogni tanto con qualche regalino, con qualcosa, un libro, una poesia ricopiata su un pezzo di carta, un foglio di musica, affinché li portassi con me, e poi spariva. E una mattina arrivò anche il biglietto di aereo da Albuquerque a NewYork. Quel pomeriggio Cliff telefonò in Ohio a sua madre perché sentisse la mia voce. Il giorno dopo a metà mattina partii. Alla scaletta dell’aereo, dei passeggeri non ero rimasta che io con Race e Cliff. Avrei voluto dire a Cliff che con quella partenza non intendevo lasciarlo, ma spingevo indietro le parole ché sarebbero uscite in un gorgo di pianto.
[Brani tratti da “Lontana terra. Diari di toscani in viaggio”, Terre di mezzo, Milano, 2005]